ACQUA & AMBIENTE | 150 ARTICOLI
I porti costituiscono un elemento vitale dell'economia dell'Unione Europea, coprendo circa il 75% del commercio extra-UE e il 36% del commercio intra-UE. A livello europeo, la principale infrastruttura è sicuramente rappresentata dal porto di Rotterdam, che detiene la capacità di transito di merci più elevata d'Europa: fra i porti italiani, Gioia Tauro è tra i primi 10 in Europa per capacità di transito. A questo fondamentale ruolo economico è tuttavia associato un rilevante impatto sull'ambiente: le navi sono responsabili del 13,5% delle emissioni di gas a effetto serra, generate dai diversi mezzi di trasporto nell’UE. Nello specifico, i porti rappresentano significative fonti di gas climaalteranti: il già citato porto di Rotterdam, ad esempio, emette 13,7 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, rendendolo il porto a maggior impatto di emissioni ad effettp serra del Vecchio Continente.
È ormai un fatto riconosciuto che le emissioni di metano svolgano un ruolo di primo piano come driver del riscaldamento climatico. Le evidenze scientifiche si moltiplicano, così come le iniziative internazionali tese alla riduzione dei rilasci di CH4 in atmosfera che, ricordiamolo, provengono da tre principali fonti antropiche: energia, agricoltura intensiva, gestione dei rifiuti. Negli ultimi due anni abbiamo tristemente assistito all’utilizzo di risorse energetiche fossili come armi geopolitiche. Allo stesso tempo assistiamo a iniziative per decarbonizzare i sistemi energetici, superare il modello fossile, diffondere le rinnovabili e i nuovi gas.
Negli ultimi anni il quadro delle iniziative internazionali per la riduzione delle emissioni di metano si è rafforzato con il lancio del “Global Methane Pledge” (GMP) e con la costituzione dell’International Methane Emissions Observatory (IMEO). Iniziative che si aggiungono a quelle dell’Oil& Gas Methane Partnership (OGMP) 2.0 e della International Energy Agency (IEA).
Le conseguenze sempre più estreme del cambiamento climatico sugli individui e sulle comunità pongono al centro dell’attenzione temi che, un tempo, erano solo marginalmente considerati. Nel linguaggio collettivo si fa sempre più uso di diritto al clima, di giustizia climatica, di contenzioso climatico, di responsabilità delle nazioni più avanzate economicamente rispetto a quelle più povere, di diplomazia climatica. Tutti temi estremamente complessi, dalle diverse dimensioni e implicazioni di cui, non senza difficoltà, la scienza giuridica sta definendo i contorni. Abbiamo provato a fare chiarezza con il Dott. Riccardo Luporini, Assegnista di ricerca presso l’Istituto DIRPOLIS della Scuola Superiore Sant’Anna e Associato e membro del Consiglio direttivo di JECA (Justice, Environment and Climate Action)
Nonostante clima e ambiente siano nell’immaginario collettivo concetti contermini, le radici del diritto al clima hanno assunto una dimensione sempre più autonoma da quella del diritto all’ambiente. Ceppo comune di queste due nozioni è, senza dubbio, il dibattito sulla giuridicità dell’interesse individuale, polarizzato dai due estremi del diritto soggettivo assoluto e dell’interesse diffuso: il primo costruito sul teorema dell’ambiente come bene collettivo «divisibile» e sulla premessa che chiunque disponga di un potere di fruizione individuale della natura che lo circonda, quasi come se ogni persona avesse nella propria sfera giuridica una porzione infinitesimale di ambiente acquisita al modo dei diritti di proprietà o di personalità.
La cattura e l’utilizzo della CO2 (CCU) non è un’attività nuova. L’Agenzia Internazionale per l’energia (AIE) stima che oggi vengano utilizzate circa 230 milioni di tonnellate (Mt) di CO2 soprattutto nella produzione di fertilizzanti (~130 Mt) e per incrementare il tasso di recupero di petrolio dai giacimenti (~80 Mt). In particolare, la tecnologia EOR (“enhanced oil recovery”) è usata negli USA da almeno quarant’anni e si è affermata grazie alla sua convenienza economica.
Dall’inizio dell'invasione russa dell'Ucraina, i paesi G7 hanno dovuto avviare un’accelerata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetiche. Ciò ha condotto da un lato, al ricorso temporale ed emergenziale di fonti tradizionali, come il carbone, o il rilancio di ambizioni di lungo corso, come rendere l’Italia un hub europeo del gas. Entrambe però con implicazioni negative per gli sforzi nella lotta al cambiamento climatico e di dubbia fattibilità economico, tecnica e finanziaria. Un hub del gas creerebbe nuove dipendenze e legami incerti e poco sostenibili con paesi altamente instabili e in aree geograficamente molto complesse.
Il primo elemento che occorre constatare è come non si disponga di soluzioni uniche, capaci di rispondere alle esigenze della domanda di energia in Europa. Il mondo della ricerca, ben rappresentato nel nostro convegno svoltosi all’interno della manifestazione K.EY Energy, ci dice che vi è molta incertezza su quale sia il percorso migliore per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione. Dall’altra, le scelte politiche – soprattutto a livello europeo – sembrano non avere dubbi su quale sia questo percorso, rendendo assai difficile trovare un compromesso condiviso tra la politica, che regola, e l’industria, che agisce sul campo.
Il servizio idrico ha cambiato marcia negli ultimi dieci anni. La regolazione ARERA, l’avvio e l’operatività degli enti di governo d’ambito e l’affermarsi della gestione industriale disegnano quella che, in più occasioni, abbiamo chiamato “rivoluzione industriale” delle regole. Un percorso nato per affrancare la gestione dell’acqua dall’ingerenza e dai bilanci dei Comuni per restituire al Paese operatori in grado di esprimere economie di scala e competenze, chiudere le distanze nella qualità del servizio e negli investimenti che ancora ci separano dall’Europa che conta.
Dal quadro descritto dal Blue Book della Fondazione Utilitatis, presentato il 22 marzo in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, si evince innanzitutto l’urgenza di agire per contrastare gli effetti del cambiamento climatico e mettere in atto azioni concrete di risposta alle crisi climatiche già in corso. Grazie anche alle nuove ulteriori collaborazioni rispetto all’edizione precedente, è stato possibile mappare le zone colpite da siccità estrema e individuare puntualmente gli incrementi di temperatura medi che si sono verificati negli ultimi anni. Il Mediterraneo è un hotspot del cambiamento climatico, ovvero una delle zone del mondo che subirà maggiormente gli effetti del riscaldamento globale, in quanto più vulnerabile di altre zone del continente.