La Conferenza Onu sui cambiamenti climatici che si è aperta a Glasgow il 31 ottobre arriva a valle del calo più forte nelle emissioni di CO2 mai registrato in un solo anno a livello globale, a causa della pandemia che nel 2020 ha imposto ovunque lockdown o altre robuste limitazioni alle attività economiche e sociali. Le buone notizie però finiscono qui.
Alla COP26 di Glasgow si registra l’assenza di interventi in presenza di figure di primo livello quali Vladimir Putin e Xi Jinping, una circostanza che ha gettato un’ombra sull’impegno di Russia e Cina nella lotta ai cambiamenti climatici. Una lettura di questo tipo, tuttavia, rischia di mancare il punto centrale della questione che va, invece, interpretata in una chiave più complessa che tenga dentro anche gli altri summit internazionali degli ultimi mesi.
La COP26 comincia obiettivamente con poche speranze. Che si giunga a un esito per cui la somma degli impegni - verificabili - dei singoli Paesi possa garantire il non superamento della soglia di 1,5 °C, che la comunità scientifica ritiene l’unica sicura per non innescare fenomeni irreversibili, è assai difficile, se non impossibile.
Intervista a Stefano Caserini (Docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano)
Le aspettative sulla COP26 si basano su una visione semplicistica del negoziato sul clima. A sentire alcuni analisti, sembrerebbe che nei 13 giorni del negoziato potrebbero essere prese decisioni in grado di risolvere la crisi climatica. Così non è, ma di sicuro la conferenza sul Clima rappresenta ogni anno un buon momento per interrogarsi sulle dimensioni della sfida climatica. Una sfida che tocca società, informazione e politica. Ne abbiamo parlato con Stefano Caserini, Ingegnere ambientale e dottore di ricerca in Ingegneria sanitaria, autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative nonché fondatore e autore del blog climalteranti.it.
La situazione del mercato energetico si impone all’attenzione dei governi alle prese con problemi di approvvigionamento, aumento dei prezzi e pressioni inflazionistiche. Questa crisi avviene alla vigilia della COP26 di Glasgow sui cambiamenti climatici e il settore energetico, responsabile dei ¾ delle emissioni, è al centro del dibattito che riguarda gli scenari di profonda trasformazione delle nostre società. L’obiettivo di raggiungere le emissioni nette pari a zero nel 2050 viene vista a livello internazionale come la necessaria soluzione per contenere il riscaldamento della terra nel limite di 1.5 gradi centigradi.
La scienza al servizio dell’industria, l’industria al servizio delle politiche climatiche. Nella cornice degli Accordi di Parigi, che punta a limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, è nata la Science Based Target initiative (SBTi), che oggi conta oltre 1.200 aziende private. L’iniziativa è una partnership tra CDP, il Global Compact delle Nazioni Unite, il World Resources Institute (WRI) e il World Wide Fund for Nature (WWF) che negli anni hanno investito per definire le migliori pratiche aziendali nella definizione di obiettivi climatici basati sulla scienza, allargando la rete di aderenti e aggiornando la formazione garantita a chi intraprende questo percorso di decarbonizzazione.
Gli ultimi due anni sono stati fuori dall’ordinario sotto tutti gli aspetti. La pandemia più disastrosa dell’ultimo secolo, oltre ad aver drasticamente redistribuito le risorse monetarie e finanziarie del mondo intero, ha trasformato modelli di business, ne ha interrotti altri e ha seriamente testato lo spirito di sopravvivenza delle aziende.
I carbon market, oltre a non essere stati esclusi dall’ondata Covid-19, hanno dovuto affrontare una moltitudine di cambiamenti sistemici, forse come mai prima d’ora, tutti concentrati proprio nell’ultimo anno. Il 2021, inoltre, ha fatto da spartiacque tra la fase III del meccanismo EU ETS, iniziata nel 2013 e conclusasi nel 2020, e la successiva fase IV che si protrarrà fino al 2030.
In Europa, l’Italia è leader nell’economia circolare: questo è il messaggio positivo che emerge dall’ultimo Rapporto sull’Economia circolare realizzato dal Circular Economy Network (CEN) in collaborazione con ENEA. Per arrivare a questa sintesi, il 3° Rapporto del CEN analizza i risultati raggiunti da Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia nelle aree della produzione, del consumo, della gestione circolare dei rifiuti oltre che degli investimenti e dell’occupazione nel riciclo e nella riparazione e riutilizzo.
Il riciclo del legno in Italia rappresenta un esempio virtuoso di economia circolare che genera importanti vantaggi economici e ambientali. Il 97% del legno a fine vita diventa nuova materia prima per l’industria del legno-arredo, permettendo di evitare l’emissione in atmosfera di 1,9 milioni di tonnellate di CO2.
Dalla cassetta di legno per l’ortofrutta alla cucina di casa nostra o dal pallet al mobile di design, il passo è breve. Detta così sembra semplice, ma dietro questo viaggio circolare del legno c’è un sistema articolato gestito da Rilegno, il consorzio ambientale per il recupero e il riciclo degli imballaggi in legno, che solo nel 2020 ha raccolto e avviato a riciclo 1.841.000 tonnellate di legno.
Qual è la verità del G7? Quella dell’AIE che si è congratulata con i suoi leader definendo il meeting una pietra miliare? Oppure quella dei movimenti ambientalisti che giudicano insufficiente, per fronteggiare l’urgenza del cambiamento climatico, la riaffermazione dell’obiettivo dei 100 miliardi di dollari all’anno ai paesi in via di sviluppo? Il bicchiere è vuoto o è pieno? Chi ha ragione? Se si fa un’analisi del testo del Comunicato ufficiale del G7 non si può non concludere che, uno, non vi sono elementi di novità di rilievo rispetto al quadro ante-G7, due, gli impegni presi, e soprattutto il linguaggio usato, sono alquanto generici.