La Conferenza Onu sui cambiamenti climatici che si è aperta a Glasgow il 31 ottobre arriva a valle del calo più forte nelle emissioni di CO2 mai registrato in un solo anno a livello globale, a causa della pandemia che nel 2020 ha imposto ovunque lockdown o altre robuste limitazioni alle attività economiche e sociali. Le buone notizie però finiscono qui. I quantitativi di gas serra che continuiamo a riversare in atmosfera non spariscono infatti da un giorno all’altro, tanto che la World meteorological organization ha certificato che nel 2020 sono stati raggiunti nuovi livelli record: rispetto ai livelli stimati per il 1750 la concentrazione di anidride carbonica (CO2) ha raggiunto 413,2 parti per milione (ppm), ed è al 149% rispetto al livello pre-industriale, mentre per il metano (CH4) siamo già al 262%.

L’ultima volta che la Terra ha sperimentato una concentrazione comparabile di CO2 è stato tra i 3 e i 5 milioni di anni fa, quando la temperatura media globale era di 2-3° C più calda e il livello del mare era di 10-20 metri più alto di quello attuale. Ma allora non c’erano 7,8 miliardi di persone a popolare il pianeta, e a subire i danni della catastrofe.

Nonostante l’eccezionalità indotta dal Covid-19, l’Emission gap report pubblicato dall’Unep solo pochi giorni fa ci ha informato che the heat is on, ovvero che il riscaldamento globale è tutt’altro che spento. Anzi: guardando agli impegni sul clima ufficializzati formalmente a livello internazionale, il mondo è sulla buona strada per raggiungere entro il 2100 i +2,7°C rispetto all’era preindustriale. Ovvero per porsi abbondantemente oltre il limite di sicurezza (+1,5-2°C) individuato dall’Accordo di Parigi sul clima nel 2015.

Su 197 Paesi Onu, un’avanguardia composta da 49 Stati più l’Unione europea – un insieme che copre oltre la metà delle emissioni e del Pil globale, e un terzo della popolazione – ha promesso di raggiungere un livello di emissioni net zero nel corso dei prossimi decenni, il che potrebbe contribuire a limare il surriscaldamento globale fino a +2,2°C entro la fine del secolo.

Tuttavia, come riconosciuto direttamente dall’Unep, molti di questi impegni sono ancora ambigui e ritardano l'azione per il clima a dopo il 2030, sollevando legittimi dubbi sulla loro efficacia: per avere una possibilità di raggiungere l’obiettivo di +1,5° C, il mondo deve quasi dimezzare le emissioni di gas serra proprio nei prossimi 8 anni.

Ma non è quanto sta accadendo, come confermato dagli esiti del G20 appena conclusosi a Roma. Le 20 più grandi economie del pianeta sono responsabili per circa tre quarti delle emissioni climalteranti che stiamo riversando in atmosfera, ma non sono riusciti a fissare una deadline per questo trend: l’obiettivo zero emissioni nette è stato fissato «entro o vicino alla metà del secolo», facendo evaporare una data certa (2050) dietro pressione dei Paesi più in ritardo sulla tabella di marcia della transizione ecologica.

Guardando in primis gli impegni sul clima profusi dai principali Paesi emettitori, nonostante gli importanti progressi degli ultimi anni la Cina sembra ancora lontana dal prendere sul serio la transizione verso la carbon neutrality, che ha fissato come obiettivo nazionale solo al 2060.

Dopo aver annunciato l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050, gli Usa di Joe Biden si apprestano a varare il piano d’investimenti “Build back better” dimezzando le ambizioni iniziali: da circa 4mila miliardi di dollari, l’asticella si è abbassata fino a 1.750 miliardi di dollari, dei quali solo 555 sono direttamente legati a investimenti su rinnovabili e clima. Al contempo, il target al 2030 annunciato da Biden contempla una riduzione delle emissioni statunitensi pari al 52% rispetto al 2005.

Narendra Modi, premier dell’India – terzo Paese al mondo per il flusso attuale di emissioni climalternati, ma con responsabilità storiche assai meno marcate – ha invece scelto il palcoscenico della Cop26 per indicare che l’obiettivo della neutralità climatica arriverà solo, ovvero vent’anni dopo rispetto a Ue o Usa.

Anche la Russia ha snobbato l’appuntamento con il net zero al 2050, facendo slittare il target al 2060; il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha liquidato la scadenza di metà secolo «come un’ambizione dell’Unione europea. Anche altri Paesi hanno diritto ad avere ambizioni».

Altri importanti Stati presenti sullo scacchiere globale delle emissioni hanno annunciato impegni largamente insufficienti. Ad esempio, tra i principali inquinatori del clima spicca come da tradizione l’Australia, che nell’annunciare i suoi nuovi obiettivi si è mossa con estremo equilibrismo: carbon neutrality al 2050 – ovvero lo stesso livello d’impegno veicolato prima dall’Ue e poi dagli Usa – ma ancora una volta nessun impegno al 2030, tanto che il leader di Greenpeace Australia Pacific, David Ritter, parla di «truffa politica, non un piano serio. Quello che abbiamo visto da Morrison è stata in realtà solo un’altra foglia di fico per l’Australia per cercare di imbrogliare la comunità internazionale facendola franca senza fare nulla. Come abbiamo visto dai documenti trapelati le scorse settimane, l’Australia ha un ruolo di ostruzionismo diplomatico nei colloqui internazionali sul clima».

Il riferimento è a un’inchiesta realizzata a livello internazionale proprio da Greenpeace, che mostra come alcuni tra i principali Paesi produttori di carbone, petrolio, carne e mangimi animali – Greenpeace cita Brasile, Argentina, Australia, Giappone, Arabia Saudita e Stati membri dell’Opec – stiano cercando di far eliminare dal prossimo rapporto Ipcc informazioni e conclusioni che minaccerebbero i loro interessi interni.

Tra questi Paesi, l’Arabia Saudita sembra rappresentare un caso esemplare di ambiguità. Il primo esportatore di petrolio al mondo ha annunciato l’obiettivo della neutralità carbonica per il 2060, sottolineando al contempo che la maggior parte delle tecnologie necessaria per ridurre le emissioni maturerebbe entro il 2040 e che il regno saudita "ha bisogno di tempo per fare le cose correttamente", il che rappresenta semplicemente un altro passo verso la procrastinazione mentre temperature ed emissioni continuano a crescere.

In un pavido contesto internazionale, l’Unione europea è leader nella transizione ecologica che procede lentamente. La nuova legge Ue sul clima ha innalzato l’obiettivo al 2030 di riduzione delle emissioni di gas serra dal 40% al 55% rispetto al 1990, ma di fatto nel 2020 le emissioni erano inferiori del 34% rispetto a trent’anni fa solo perché la pandemia ha comportato un drastico taglio del 10% tra il 2019 e il 2020. Nei prossimi 9 anni ci dovrà essere dunque un’accelerazione robusta nelle politiche di decarbonizzazione, e ogni singolo Stato membro è chiamato a svolgere il proprio ruolo per non pagare uno scotto salatissimo di fronte alla crisi climatica.

Sotto questo profilo secondo l’analisi G20 climate risk atlas, pubblicata dalla Fondazione Cmcc in occasione del vertice in avvio a Roma, l’Italia rappresenta uno dei Paesi più a rischio. Nonostante il nostro Paese attualmente emetta “solo” lo 0,87% delle emissioni globali di gas serra – con emissioni di CO2 procapite comunque più alte del 20% rispetto alla media internazionale –, allargando la prospettiva storica risalendo fino al 1850 risulta il 19esimo più grande inquinatore del clima al mondo, una prospettiva che oggi pesa molto anche sul prossimo futuro.

Se infatti nel 2020 il Pil italiano è arretrato dell’8,9%% a causa del Covid-19, il Cmcc stima che entro il 2050 – anche in uno scenario a basse emissioni – il Prodotto interno lordo nazionale diminuirà del 2,2% (pari 36 miliardi di euro l’anno), mentre in uno scenario ad alte emissioni le perdite economiche ammonteranno a 116 miliardi di euro l’anno (oltre l’8% del Pil) entro la fine del secolo. Agire subito e in modo incisivo non conviene dunque solo al clima, ma anche al nostro portafogli.