Alla COP26 di Glasgow si registra l’assenza di interventi in presenza di figure di primo livello quali Vladimir Putin e Xi Jinping, una circostanza che ha gettato un’ombra sull’impegno di Russia e Cina nella lotta ai cambiamenti climatici. Una lettura di questo tipo, tuttavia, rischia di mancare il punto centrale della questione che va, invece, interpretata in una chiave più complessa che tenga dentro anche gli altri summit internazionali degli ultimi mesi.

Putin e Xi Jinping, infatti, non sono intervenuti in presenza nemmeno al Summit del G20 a Roma e in occasione del G20 straordinario del 12 ottobre sull’Afghanistan non si sono mostrati nemmeno in video. La stessa linea è stata tenuta nel corso di tutta la pandemia, con un’unica eccezione da parte di Putin che il 16 giugno 2021 si è recato a Ginevra per incontrare il Presidente americano Biden, compiendo così la prima visita internazionale dal 23 gennaio 2020. Xi Jinping, invece, non ha fatto eccezioni e non esce dal Paese dal 18 gennaio 2020, pochi giorni prima dell’imposizione del lockdown a Wuhan. Pur avendo effettuato diverse visite in Cina, Xi Jinping è persino intervenuto solo in collegamento video alla riunione Cop15 sulla biodiversità che si è svolta tra l’11 e il 15 ottobre a Kunming, su suolo cinese. Con queste premesse, la notizia sarebbe stata la partecipazione a Glasgow dei leader russo e cinese, non la loro assenza.

Inoltre, è ragionevole aspettarsi che anche con la loro presenza i risultati non sarebbero stati differenti. Putin, in teleconferenza, ha fissato degli obiettivi analoghi a quelli indicata dalla Cina – ovvero la neutralità carbonica entro il 2060 – mentre Xi Jinping ha mandato un messaggio scritto ribadendo quanto già affermato negli ultimi due interventi all’Assemblea Generale dell’Onu, a partire proprio dalla neutralità carbonica entro il 2060. Le considerazioni sulle politiche ambientali cinesi, però, devono essere costruite su di un doppio binario: politica interna e internazionale.

L’impegno cinese verso una riduzione del danno ambientale – in senso generale, non solo in riferimento alle vicende climatiche ­– è ormai centrale nella retorica sull’azione del partito. Il punto è che vi è un pieno riconoscimento del fatto che la crescita degli anni ’80, ’90 e ’00 è avvenuta senza alcuna preoccupazione per l’ambiente. Tuttavia, almeno dagli anni ’10, il patto sociale promosso dal partito di offrire buon governo in cambio di legittimazione politica si è evoluto dalla sola crescita del Pil a un prodotto più complesso che tiene in conto anche la qualità della vita. La centralità dell’ambiente nelle politiche cinesi è ben rappresentata da alcuni episodi significativi. Il 2014 è stato un anno importante non solo perché è stata approvata la Legge sulla Protezione Ambientale, entrata in vigore l’anno successivo, ma perché in occasione del summit dell’Apec a Pechino è stato siglato il primo accordo tra Usa e Cina sulla riduzione dei gas climalteranti e si è diffuso il concetto di “Apec Blue”. Si tratta della particolare circostanza di cielo terso e, appunto, “blu” che si è visto sulla capitale cinese nei giorni del summit. Un risultato eccezionale che si è ottenuto tramite lo spegnimento delle industrie più inquinanti a ridosso del vertice regionale per ribaltare agli occhi internazionali e nazionali la percezione di Pechino come città ultra-inquinata. Qual è il punto? Il punto è che si è così affermata in quel momento la contraddizione tra necessità di un ambiente non inquinato e la crescita economica incontrollata. Lo stesso principio è stato poi riproposto negli anni successivi operando nei mesi invernali uno spegnimento selettivo delle industrie più energivore con l’obiettivo di contenere l’emissione di inquinanti e avvicinarsi quanto più possibile all’ideale dell’Apec Blue. Il problema è che un tale sistema – che inevitabilmente ha un effetto negativo diretto sulla crescita del Pil – è percorribile solo in periodi di crescita economica in eccesso e va in crisi nel momento in cui c’è necessità che il settore industriale vada a pieno regimo per sostenere la crescita economica. In parte è quello che è avvenuto dopo l’estate, quando sono entrate in conflitto le esigenze di fissare limitazioni alle emissioni fossili e la necessità di energia elettrica a buon mercato per sostenere la produzione industriale.

In questo quadro, le politiche climatiche e ambientali cinesi risultano almeno parzialmente slegate dal dibattito internazionale. Pechino vuole migliorare la propria performance ambientale perché ritiene – e lo ha sbandierato con una forte campagna propagandistica – che un ottimo curriculum verde sia ormai compito di chi governa assieme alla crescita economica e alla redistribuzione della ricchezza. Un tale percorso è dunque tracciato, ma deve essere continuamente messo alla prova dell’equilibrio del sistema nel rapporto tra crescita e sostenibilità ambientale. Per questo non sorprende affatto che in caso di necessità si sia deciso di tornare con forza al carbone. Una scelta che, però, secondo questa logica, dovrebbe essere nuovamente ribaltata non appena ce ne sarà la possibilità. Si può anche ipotizzare che le vicende energetiche del settembre cinese possano spingere su più decisi investimenti nel campo delle tecnologie per la transizione, che risultano fondamentali sia per semplificare la decarbonizzazione cinese sia per dominare il mercato internazionale nei settori industriali del futuro. 

L’assenza di Xi Jinping a Glasgow, dunque, non colpisce in quanto possibile disimpegno cinese sul tema ambientale, quanto piuttosto perché il leader cinese negli ultimi anni aveva investito molto sull’immagine di una “Cina verde”. Questo ambito, infatti, è l’unico rimasto in cui Pechino viene generalmente letta dall’opinione pubblica internazionale occidentale in modo positivo, mentre nel contesto dei diritti umani, della proiezione internazionale, degli investimenti, della spesa militare ed altri numerosi casi viene vista a torto a ragione come il “cattivo globale”.  Dall’accordo con Obama all’Apec in poi, Xi si era speso più volte in favore di impegni – anche volontari – che, pure in contrapposizione con le politiche di Trump, avevano fatto della Cina una delle punte internazionali nella protezione ambientale. Sulla mancata apparizione di Xi almeno in video alla Cop 26 sono state costruite diverse ipotesi. In alcuni casi si è fatto notare come gli impegni interni con il rischio di una nuova ondata pandemia ancora in sospeso possano aver completamento assorbito l’attenzione di Xi. Bisogna ricordare, infatti, che tra l’8 e l’11 novembre si terrà il Sesto Plenum del Comitato Centrale del Pcc che, oltre a essere l’appuntamento annuale più importante per il partito, quest’anno avrà in agenda una epocale risoluzione che dovrebbe definitivamente aprire la strada verso il XX Congresso che l’anno prossimo incoronerà Xi come il leader più longevo da generazioni. L’altra interpretazione è che Xi sia ormai talmente sicuro di sé di non aver più bisogno di passerelle internazionali a fini interni né senta il bisogno di confrontarsi con altri leader. Va detto, infatti, che una partecipazione in presenza avrebbe inevitabilmente messo sul tavolo un incontro con Biden che, nel difficile contesto delle relazioni tra Pechino e Washington, non è ancora avvenuto nemmeno virtualmente.

Quale che sia la ragione, l’impressione è che l’assenza di Xi a Glasgow abbia poco a che vedere con il clima.