Le cose non vanno come auspicato o previsto. Non vanno, in primo luogo, guardando alle emissioni clima-alteranti, il parametro cui si dovrebbe prestare maggiore attenzione, che anche nel 2023 sono aumentate, nonostante l’insoddisfacente andamento delle economie, la minor produzione di molte industrie, l’ulteriore progresso delle rinnovabili.
Di Enrico Mattei molto si è scritto e dibattuto in passato da fronti nettamente contrapposti. In modo talora agiografico - sino a sfiorarne la mitologia - più di sovente in modo denigratorio: quale simbolo negativo della politica italiana e del capitalismo di Stato. Di queste due raffigurazioni, è la seconda, quella negativa, che ha preso ad attecchire. Come testimoniato da quanto scritto qualche anno fa da un Senatore della Repubblica che si augurava che non avessero a nascere altri Mattei: indispettito del fatto che managers di imprese pubbliche continuassero a conseguire buoni risultati, col “rischio” che ciò allentasse la via della loro privatizzazione.
Mentre i prezzi del petrolio parevano ormai tendere ai 100 dollari al barile, per poi ripiegare verso gli 85, per i timori di recessione con conseguente caduta della sua domanda, con le cancellerie che si interrogavano sull’impatto che ne sarebbe potuto derivare sull’inflazione e di qui sui tassi di interesse e sulla crescita delle economie, l’Agenzia di Parigi (AIE) ha rassicurato che non vi sarebbe stato comunque nulla di cui preoccuparsi. Perché, a suo dire, siamo infatti semplicemente di fronte all’agognato ‘Canto del Cigno’ del petrolio, fonte oggi dominante nella mappa energetica mondiale, ma destinata nell’arco di breve tempo ad uscirne.
Nel momento in cui scriviamo (18 luglio) vi è una totale incertezza sul fronte del gas relativamente a quel che potrà succedere dopo il 21 luglio, data fissata per il termine della manutenzione del Nord Stream 1. Chiusura che ha causato l’azzeramento delle preponderanti forniture russe alla Germania e un ulteriore balzo dei prezzi del gas sulle piattaforme negoziali europee che in un mese sono all’incirca raddoppiate, arrivando su quella italiana PSV a livelli prossimi ai massimi che si ebbero alla fine del 2021.
Dopo aver letto le proposte contenute nelle Comunicazioni della Commissione europea denominate REPowerEu dell’8 marzo e del 18 maggio (d’ora in avanti Piano 1 e Piano 2) sorge spontanea una domanda: se i loro estensori abbiano tenuto conto delle condizioni economiche e d’altro tipo necessarie a conseguire l’obiettivo atteso: l’azzeramento delle importazioni energetiche dalla Russia.
Il consistente ripiegamento a gennaio dei prezzi spot del metano rispetto ai massimi del dicembre scorso, a livelli comunque ancora enormemente superiori a quelli di due anni fa, e l’approssimarsi della fine della stagione invernale insieme allo sperabile allentarsi della crisi russo-ucraina, hanno spinto molti, specie da parte della Commissione di Bruxelles, a ritenere che il peggio sia alle spalle; che la crisi fosse da ritenersi di natura prettamente congiunturale. Che non vi sia, in sostanza, da allarmarsi più di tanto.
Ho sempre ritenuto che un’eventuale esclusione del gas naturale e del nucleare dalla tassonomia UE che definisce le regole per la finanza cosiddetta sostenibile, sarebbe stato un madornale errore che avrebbe finito per impattare negativamente proprio sulla transizione energetica che si vorrebbe implementare. Un involontario effetto boomerang come sempre accade quando le decisioni sono offuscate dall’ideologia.
L’energia pesa sempre di più e sempre più peserà sui bilanci delle famiglie e sui conti delle imprese. Per due ordini di ragioni. Primo: di carattere congiunturale, ovvero la crisi del mercato del gas indotta dalla famelica domanda dell’Asia disposta a pagare qualsiasi prezzo con rimbalzo immediato sui prezzi europei. Il mercato del gas è ormai globalizzato e ogni stormir di fronde si avverte ovunque. Anche in questo caso l’Europa non conta niente, dipendendo sempre più dagli altri mercati.
L’importanza dell’infinito numero di Summit internazionali su ambiente e clima che si succedono dal primo (nel lontano 1992 Rio de Janeiro), di cui quattro solo quest’anno: quello organizzato da Biden in aprile, il G7 di giugno, il G20 di ottobre, la COP 26 di novembre – poggia su due principali condizioni. Da un lato, la capacità di fissare obiettivi, nei contenuti e nei tempi, realisticamente conseguibili. Dall’altro, la credibilità dei protagonisti nel dar seguito agli impegni assunti. Condizioni in entrambi i casi che non possono dirsi esaudite.
Per aver contezza dei problemi da superare per conseguire gli obiettivi dell’Accordo di Parigi o del Green Deal europeo penso che il criterio cui attenersi debba essere quello di dire le cose come stanno. Anche se possono dispiacere. Le cose stanno che ‘transizione energetica’ e ‘decarbonizzazione’ non si sono ad oggi materializzati. Nei trascorsi venti anni, il passaggio al dopo-fossili non ha fatto un alcun passo in avanti: col loro peso nei consumi primari di energia aumentato dall’80% all’81% e nella generazione elettrica diminuito di appena 2 punti dal 65% al 63% (dati AIE). Idem per quanto riguarda la decarbonizzazione con l’intensità carbonica (CO2/tep) rimasta stabile nei consumi primari e addirittura aumentata nell’elettricità.