Per capire quale sia il destino del carbone in Europa e che influenza eserciterà su di esso il prezzo dei permessi di emissione, occorre approfondire la situazione su entrambi i fronti prima della diffusione della pandemia. Il 2019 per il carbone è stato un anno decisivo: anzitutto, per la prima volta, ha perso lo scettro di fonte più utilizzata nella generazione elettrica, superato dalle fonti low-carbon.
Una delle chiavi per spiegare il sorprendente successo di Donald Trump in occasione delle elezioni presidenziali del 2016 è stato senza dubbio la sua capacità di convincere la Rust Belt americana, ovvero l’antico cuore industriale degli Usa. In particolare, l’attuale inquilino della Casa Bianca è riuscito a vincere in tutti gli stati in bilico promettendo la reindustrializzazione del paese e lo stop alla cosiddetta guerra al carbone, ovvero la fonte che ha segnato l’industrializzazione a stelle e strisce e che invece – per ragioni ambientali – l’amministrazione Obama aveva fortemente osteggiato.
I riflessi della pandemia da COVID-19 e l’interruzione di molte attività economiche ed industriali hanno garantito una flessione consistente delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e un temporaneo sollievo al pressante problema dell’inquinamento atmosferico in Cina. Le stime di Carbon Tracker parlano di una riduzione del 18% delle emissioni nelle sette settimane successive al capodanno cinese (dalla fine di gennaio alla metà di marzo), per un ammontare totale di 250 milioni di tonnellate in meno di CO2.