Le dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea durante il discorso sullo stato dell'Unione hanno introdotto formalmente nell'agenda energetica comunitaria il tema del disaccoppiamento tra il prezzo del gas naturale e quello dell'elettricità, di cui in realtà si discuteva a livello informale già da mesi.
Invocato dai governi di mezza Europa, il disaccoppiamento del prezzo del gas naturale da quello dell'elettricità è uno di quegli argomenti complicati da maneggiare, perché, a fronte di grandi aspettative condivise, c'è una grande confusione riguardo alla cornice tecnica.
Mentre il dibattito sulla politica climatica cresce d’intensità, ci concentriamo sui dettagli rischiando di perdere di vista il quadro d’insieme. Più che parlare di rendimenti dei pannelli fotovoltaici o del capacity factor delle turbine eoliche sarebbe opportuno inquadrare la transizione energetica in una cornice analitica e strategica. Una volta spogliata da tutte le narrative, infatti, la transizione energetica prende la forma di un gigantesco riorientamento del sistema energetico globale dal campo delle materie prime a quello della medium & high tech.
Nonostante siano estratti su scala industriale in un solo Paese - gli USA - il light tight oil e lo shale gas sono ormai da almeno 5 anni i principali market movers globali nel settore dell'energia. I giacimenti non convenzionali da cui vengono estratti con tecniche di perforazione e trivellazione avanzate hanno, infatti, una caratteristica che li ha resi un game-changer straordinario: la produttività.
Il Canale di Panama è uno dei principali snodi del traffico marittimo globale.
Nel corso del 2016 sono transitati lungo il passaggio oltre 200 milioni di tonnellate di merci e materiali.
Circa la metà dei flussi si è mosso lungo tre grandi rotte: dalla costa orientale USA alle coste dell’Asia continentale; dalla costa orientale alla costa occidentale USA; dall’Europa alla costa occidentale USA. Il 67% degli scambi coinvolge, in entrata o in uscita, gli Stati Uniti.
Per oltre due secoli l’industria del carbone ha avuto un ruolo fondamentale nel tessuto produttivo statunitense. I giacimenti situati lungo la catena degli Appalachi hanno fornito, sin dagli albori dell’industrializzazione del paese, notevoli quantità di litantrace bituminoso e antracite di ottima qualità, alimentando il tessuto produttivo americano durante la prima età dell’oro del carbone (1880-1920). A partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, il primo shock petrolifero, i conseguenti contraccolpi psicologici della notevole dipendenza energetica dall’estero nonché l’avvio di una nuova fase dei mercati delle commodities, che vede la progressiva affermazione delle compagnie nazionalizzate, l’aumento del potere dei cartelli produttivi e il ridimensionamento di quello delle IOCs e dei paesi consumatori, hanno innescato una rifioritura del settore carbonifero, che però ha riguardato soprattutto i depositi situati a occidente, nel bacino strutturale del Powder River, tra il Wyoming e il Montana.