Mentre il dibattito sulla politica climatica cresce d’intensità, ci concentriamo sui dettagli rischiando di perdere di vista il quadro d’insieme. Più che parlare di rendimenti dei pannelli fotovoltaici o del capacity factor delle turbine eoliche sarebbe opportuno inquadrare la transizione energetica in una cornice analitica e strategica. Una volta spogliata da tutte le narrative, infatti, la transizione energetica prende la forma di un gigantesco riorientamento del sistema energetico globale dal campo delle materie prime a quello della medium & high tech.

Pannelli fotovoltaici, turbine eoliche, batterie, inverter, trasformatori, elettrolizzatori e così via sono dispositivi tecnologici più o meno complessi, che dovranno andare a sostituire il sistema energetico basato su materie prime, quali i combustibili fossili.

Una trasformazione epocale implica inevitabilmente una ridistribuzione a livello globale dei compiti produttivi. E quindi di reddito.

Paradossalmente, le economie più penalizzate da questa transizione non saranno quelle che producono più fossili ma quelle che non riusciranno a ritagliarsi un ruolo nella filiera della high and medium tech verde. In poche parole, i Paesi più poveri. Parallelamente, l'indiscusso primato globale nel mercato dell'elettronica finirà inevitabilmente per premiare le economie asiatiche e in particolare Pechino, la fabbrica del mondo.

Immaginare di riportare questo tipo di produzioni in Europa o negli USA è del tutto velleitario. Da una parte perché Pechino controlla il mercato dei cosiddetti materiali critici, cioè le materie prime alla base della greentech. Dall'altra, perché nella stragrande maggioranza dei casi, visto il peso preponderante di materiali-lavoro-elettricità questo genere di cicli produttivi sono fatti su misura per i factory system, cioè per quei Paesi orientati verso la produzione industriale. 

Pensiamo ai pannelli solari: più di due terzi dei costi di produzione sono assorbiti dai materiali, dall’energia e dalla manodopera. In questo caso, tra l’altro, ci si imbatte in un cortocircuito ambientale: l’Europa non può competere con il colosso cinese nella produzione di pannelli fotovoltaici o batterie non solo perché qui il costo della manodopera è maggiore ma anche perché in Cina l’elettricità è prodotta con il carbone, l’industria metallurgica gode di deroghe ambientali e perché le industrie strategiche non sono gravate da tanti paletti normativi di natura ambientale. Una bella contraddizione, insomma. Il quadro diventa ancora più chiaro, se si considera, che per la prima volta da oltre due secoli, la domanda è trainata dal mercato asiatico e non da quello euroamericano.

Ovviamente, mettendo sul piatto generosi incentivi oppure venture capital pubblico, i governi europei possono convincere i grandi player internazionali a installare impianti strategici o ad alto valore aggiunto in Europa. Di fatto, lo stanno già facendo ma, quantomeno dal punto di vista occupazionale, parliamo di cattedrali nel deserto: la produzione di base rimarrà senza alcun dubbio in Asia.

Per l’Italia questa dinamica è estremamente preoccupante. La transizione dall’energia termica a quella elettrica, quindi dalla meccanica all’elettronica, rischia infatti di desertificare il tessuto produttivo del nostro Paese che, a partire dal boom economico, ha accumulato un cospicuo patrimonio tecnologico in alcuni dei settori più penalizzati dalla transizione energetica. Pensiamo al settore dell’impiantistica, dalle caldaie ai termodomestici, pensiamo all’automotive.  Un’auto elettrica ha molte meno parti mobili/soggette a usura di un’auto tradizionale, perciò, la riconversione dal motore termico a quello elettrico significa cancellare interi segmenti della componentistica, in cui il nostro paese è in molti casi leader a livello mondiale.

Questa apparente semplificazione, che sembrerebbe giustificare la narrativa secondo cui la transizione verso la mobilità elettrica rappresenta un’evoluzione tecnologica, viene in realtà ampiamente controbilanciata dall’aumento del fabbisogno di componentistica elettronica (powertrain + batteria). Tuttavia, se il cuore del veicolo diventa cinese e se la domanda viene trainata dall’Asia, che garanzie ha l’Italia di riuscire a trattenere i rimasugli della componentistica meccanica?

Per di più, un’elettrificazione diffusa coincide con una ristrutturazione del settore della manutenzione verso “il modello iPhone”: manutenzione centralizzata e orientata prettamente alla sostituzione piuttosto che alla riparazione. In poche parole, un’altra catastrofe socioeconomica per il tessuto artigianale e per i servizi di base con evidenti ripercussioni economiche/occupazionali.

D’altra parte, la riconversione del sistema energetico e di quello industriale richiederà enormi investimenti. Di stime sui costi della decarbonizzazione per il momento ce ne sono molto poche, generiche, rudimentali e per lo più su scala globale. Ma qualche mese fa l’equivalente tedesco della Cassa Depositi e Prestiti ha pubblicato uno studio di oltre 200 pagine che stima il fabbisogno finanziario per la decarbonizzazione dell’economia tedesca entro il 2045. E i calcoli della banca tedesca fanno tremare le vene ai polsi: 5.000 miliardi di euro. Chiaramente l’Italia non è la Germania ma l’ordine di grandezza con tutta probabilità è questo. A questo ciclopico fabbisogno finanziario, che direttamente (tasse) o indirettamente (prezzi) dovrà essere finanziato da famiglie e imprese, si aggiunge un ampio spettro di oneri indiretti che rischiano di esacerbare le già crescenti disuguaglianze sociali. Pensiamo al bando per i camini o le caldaie a gas - già programmato in alcuni Paesi europei - o ai disincentivi nei confronti della mobilità privata in ambito urbano: misure che minacciano di tradursi in ulteriori costi indiretti per le fasce meno abbienti della popolazione.

Ma il fabbisogno finanziario e gli oneri socioeconomici non sono l’unico tallone d’Achille della strategia attualmente in discussione. A fronte di sacrifici crescenti, infatti, i risultati saranno modesti. Nel suo ultimo rapporto l’IPCC stima che, anche se riusciremo a limitare il surriscaldamento dell’atmosfera terrestre entro i 2 gradi al 2050, non fermeremo il cambiamento climatico: già cinquant’anni dopo, nel 2100, la variazione termica sfiorerà +3 gradi.

Questo scenario, che già di per sé potrebbe apparire sconsolante, è sicuramente ottimistico, per il semplice motivo che sterilizza le due variabili più pericolose di questa crisi: il rischio e l’incertezza. Per semplificare all’estremo, il sistema climatico terrestre è un sistema omeostatico, cioè un sistema le cui componenti tendono naturalmente all’equilibrio. In buona sostanza, un esempio perfetto della teoria di Nash sui sistemi complessi. Le emissioni antropiche sono un fattore di disturbo che, in un primo momento, ha scatenato una reazione “elastica”: le altre componenti hanno ammortizzato lo squilibrio, motivo per cui la temperatura non aumentava nonostante le emissioni antropiche crescessero costantemente. Con il tempo, però, il sistema è destinato a riassestarsi, tendendo verso un nuovo equilibrio. Tradotto nella realtà pratica che significa? Un esempio tra i tanti possibili: quando la concentrazione di CO2 raggiungerà un determinato punto di rottura (tipping point) lo scioglimento del permafrost diventerà irreversibile, liberando in atmosfera qualche migliaio di miliardi di tonnellate di CO2 in un arco temporale non prevedibile con gli strumenti a nostra disposizione. E il modello climatico più diffuso al mondo stima che questo punto limite sia già stato oltrepassato nel 2020.

I governi, perciò, si troveranno a dover chiedere sempre più sacrifici agli elettori senza poter presentare alcun risultato. Difficile immaginare che questo non diventi il terreno di coltura ideale per un negazionismo politico di nuova generazione.

Non c’è più nulla da fare, quindi? No, al contrario, la minaccia di un’escalation naturale ci dovrebbe chiarire le idee riguardo a quale strada prendere. Come hanno sottolineato tutte e tre le principali accademie delle scienze mondiali, quella europea, quella americana e quella inglese, l’unica possibile soluzione al cambiamento climatico è la rimozione della CO2 in eccesso dall’atmosfera. Qualsiasi altra opzione, nel migliore dei casi, può rallentare la degenerazione del sistema climatico terrestre ma non può arrestarla. E, oltretutto, non ci proteggerebbe da un eventuale collasso dei carbon pool naturali.

La tecnologia per catturare la CO2 dall’atmosfera è tutt’altro che avveniristica però necessita di un perfezionamento economico: fino a pochi anni fa nessuno si era posto il problema di tradurre questa tecnologia in un ciclo industriale. I laboratori ideali in cui perfezionare l’efficienza economica di questa tecnologia sono gli impianti alimentati da combustibili fossili, dato che in questo caso la concentrazione di CO2 si misura in termini percentuali e non in parti per milione, il che rende la sperimentazione molto meno costosa rispetto agli impianti di cattura diretta. Anche in questo caso, parliamo di un’opzione tutt’altro fantascientifica. È vero che gli impianti di carbon capture di grandi dimensioni sono pochi, 16 in tutto il mondo, ma questi 16 impianti catturano la stessa quantità di CO2 che 2 milioni di impianti fotovoltaici tedeschi evitano di mandare in atmosfera (40 milioni di tonnellate l’anno).

Oltretutto, decarbonizzare i combustibili fossili equivarrebbe a sciogliere alcuni dei nodi più problematici della strategia di contrasto al cambiamento climatico, come quello che riguarda la traiettoria di sviluppo delle economie emergenti. E garantirebbe alle prossime generazioni un accesso sicuro a quell’enorme deposito di energia di cui hanno ampiamente goduto i loro antenati. La transizione verso le energie rinnovabili e l’elettrificazione profonda, al contrario, ridurranno inevitabilmente la base energetica globale, dato l’EROEI (l’Energy Return On Energy Investment) molto contenuto degli impianti fotovoltaici e di quelli eolici.

Se ci pensiamo bene, un paradosso: sappiamo che nel lungo periodo avremo bisogno di molta più energia (per le dinamiche economiche e demografiche in atto ma anche per rispondere al climate change) però nel breve/medio periodo programmiamo la riduzione della base energetica globale. Letteralmente l’opposto di una strategia.