Quello dello “spreco dell’acqua” è uno dei temi più fraintesi nel dibattito pubblico. Come scrive Boccaletti nel suo libro Siccità. Un paese alla frontiera del clima (2024), discutiamo di soluzioni (dalle nuove dighe all’irrigazione a goccia) senza avere ben chiaro quali siano i problemi. Cerchiamo affannosamente le risposte, ma non abbiamo imparato a fare le domande giuste. Ai bambini delle scuole insegniamo che bisogna chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti e ci si insapona sotto la doccia. La buonanima di Fulco Pratesi credeva di salvare il pianeta quando si vantava di cambiarsi le mutande una volta alla settimana, riducendo il numero dei lavaggi.

Per stigmatizzare lo stato di salute precaria delle nostre reti idriche, il primo dato che viene citato è quello delle perdite di rete e degli acquedotti “colabrodo”: un problema semmai economico (visto che prima di perderla quell’acqua l’abbiamo sollevata, trasportata e trattata), ma non idrologico, visto che essa ritorna in genere alla falda da cui era stata prelevata.

Si fa confusione tra uso e consumo, dimenticando che l’acqua che usiamo viene in gran parte restituita ai corpi idrici, e solo quella che evapora o viene assorbita nella biomassa costituisce effettivamente un consumo.

Anche le statistiche ci sviano, contabilizzando gli usi dell’acqua con tabelle basate solo sull’aritmetica elementare delle addizioni, misurando lo stress idrico come rapporto tra la somma degli usi e risorse disponibili su base annua. Ad esempio, ci dicono che sull’Italia piovono poco meno di 300 km3 all’anno, e di questi poco meno della metà rappresentano il deflusso (il resto evapora o viene assorbito dalle piante). I prelievi sono in tutto 34,2 km3 (quattro volte di meno); e gli usi effettivi, al netto delle perdite sono ancora meno, circa 26,6 km3 (D’Angelis e Grassi, La nuova civiltà dell’acqua, 2024).

Informazione utile, per carità. Ma facendo i conti in questo modo, dimentichiamo che spesso gli usi usano la stessa acqua, uno a valle dell’altro. E dimentichiamo pure che ciò che conta davvero non è l’acqua fisicamente disponibile sul territorio, ma quella accessibile istante per istante. Se l’acqua che defluisce non viene usata o stoccata da qualche parte, finisce in mare.

Per mettere un po’ d’ordine, sarà utile ricordare due cose. La prima: la disponibilità idrica è un flusso variabile nel tempo. Ghiacciai, neve, laghi e falde permettono di “immagazzinarla” per un po’, modulando i rilasci (e infatti chi non ne ha, come l’Inghilterra, ha problemi idrici molto maggiori dell’Italia, a parità di precipitazioni). Quando la capacità di stoccaggio naturale non è sufficiente, si può provvedere con mezzi artificiali: dighe, serbatoi, ripompaggi, infiltrazione forzata, neve artificiale. In casi estremi si può ricorrere all’energia per dissalare l’acqua del mare. Ma mentre quelli della natura sono “doni gratuiti”, quelli artificiali costano cari.

La seconda: l’acqua è “scarsa” solo in situazioni particolari. In economia, scarsità fa rima con rivalità: qualcosa è scarso non perché ne abbiamo poco ma perché per soddisfare un uso è necessario sacrificarne un altro. Magari capita per una settimana o due in un anno: quando la domanda si concentra tutta lì e i deflussi (naturali e artificiali) non sono sufficienti.  Perciò i “consumi” da monitorare con maggiore attenzione sono quelli che si concentrano nei periodi di stress o attingono agli stock, impedendo a questi di essere al pieno della capacità quando si verificano i picchi di squilibrio.

La scarsità assoluta è sempre un problema di equilibrio tra domanda e offerta. Se la domanda cresce e l’offerta naturale non basta, dobbiamo valutare se il costo (i mezzi artificiali) sia compensato dai benefici (la maggiore produzione agricola o idroelettrica, ma anche la possibilità di farci la doccia quando vogliamo). A volte, può essere sufficiente chiedere a qualche uso di sacrificarsi, rinunciando ad avere tutta l’acqua che vorrebbe e tutta in quel momento.

Quello che è certo è che i gradi di libertà (una maggiore flessibilità dell’offerta e della domanda) si guadagnano nel lungo periodo con azioni strutturali. La disponibilità non può essere facilmente incrementata nel breve periodo, se il sistema non si è preventivamente dotato di qualche forma di ridondanza. E anche la domanda difficilmente sa adattarsi trovando alternative nel breve. Se hai seminato mais e in primavera non piove, l’unica alternativa che hai all’irrigazione è perdere il raccolto.

Impariamo quindi innanzitutto a distinguere gli sprechi tout-court – le risorse economiche che inutilmente mobilitiamo per procurare acqua che poi usiamo male – dall’economia dell’acqua intesa come risorsa. Lavoro, capitale, energia: in una parola, denaro.

Quando è proprio l’acqua a mancare – nel senso che non ce n’è abbastanza per soddisfare tutti, sarebbe già buona cosa poter decidere quali usi sacrificare. Anche questa possibilità richiede un intervento strutturale. Dove si irriga per scorrimento, l’acqua arriva per gravità e viene immessa a turno nelle canalizzazioni secondarie. Irrigherai solo nel giorno e nell’ora in cui tocca a te. In compenso, costa meno. L’irrigazione a pioggia consente di farlo quando si vuole e anche di scegliere se aprire il rubinetto o no, ma la rete in pressione non ce la regala il buon Dio.

Nel settore civile, prima di sospendere l’erogazione si può indurre la popolazione, con le buone o con le cattive, a rinunciare ad usi meno essenziali come il lavaggio dell’auto, le piscine o l’irrigazione dei giardini, (attenzione, sopra non ho detto che chiudere il rubinetto quando ci si insapona sia inutile: ho detto piuttosto che è utile quelle volte in cui l’acquedotto è sotto stress per eccesso di domanda, cosa che accade di rado).

I cambiamenti climatici rappresentano però uno shock strutturale. Dalle avvisaglie che abbiamo potuto osservare negli ultimi anni, fenomeni di crisi un tempo rari divengono più frequenti, rendendo le situazioni critiche più abitualu, più durature e più intense. E quindi dobbiamo incominciare a chiederci se non sia il caso di investire appunto in misure strutturali che ci permettano di “acquistare” qualche grado di libertà in più.

Possiamo immaginarcene sul lato dell’offerta. Invasi, per esempio. Ancora Boccaletti riporta un dato interessante: la capacità di invaso artificiale italiana, pari a circa 10 miliardi di m3, vale circa metà del fabbisogno annuo del paese. Quella spagnola corrisponde a 2,5 volte, e quella degli USA a più di 4 volte. Incrementarla non è solo un problema di costi, ma anche di impatto sul territorio, come ben sanno i cinesi, che per realizzare l’immane progetto delle Tre Gole hanno inondato un’area vasta come la Lombardia e deportato qualche milione di persone. Ci sono anche vie meno impattanti: la ricarica artificiale delle falde, per esempio; ma anche la semplice interconnessione tra reti limitrofe, che permette di ovviare alle carenze di un territorio con la sovrabbondanza di quelli vicini.

Senza dimenticare il lato della domanda. Dove possiamo imparare in primo luogo a riusarla in maniera sistematica, ricercando forme di simbiosi tra i vari sistemi (es. tra civile e agricolo) o all’interno del sistema civile (es. reti duali, “tetti intelligenti”, fino ad arrivare all’avveniristico modello della sponge-city (città spugna). E, certo, possiamo investire per efficientare il nostro modello di consumo: installando ovunque sciacquoni con il controllo di flusso, sostituendo i vecchi elettrodomestici, riutilizzando le acque “grigie“ dei lavandini per lo sciacquone del WC, e tante altre. Ancora, si porrà prima o poi anche il tema dell’agricoltura irrigua, che in Italia si è adattata al clima (di ieri) con colture molto idroesigenti, specie al Nord; e che con il clima di domani potrebbe invece doversi riconvertire verso colture diverse, meno dipendenti dall’acqua. Ma attenzione a non farla troppo facile, perché senza irrigazione il made in Italy agricolo di qualità rischierebbe di scomparire. Quindi bisognerà anche decidere, all’interno del settore agricolo, cosa tenere, cosa sacrificare, e come eventualmente compensare chi si sacrifica.

Ma c’è un ultimo “spreco” di cui però è necessario parlare. È quello dovuto alla tanta acqua che gli scarichi inquinati rendono inservibile, sia per altri usi antropici che per quelli cosiddetti “ecologici”. Grazie anche alla meritoria attività del Commissario straordinario, molte criticità relative al sistema fognario e depurativo sono in via di risoluzione: ma mettersi in regola con le Direttive sulle acque reflue non è sufficiente, se ancora oggi, meno di metà dei corpi idrici italiani si trova in buono stato ecologico, con la conseguente perdita dei relativi servizi ecosistemici (Ispra, 2023). Nessuno si è ancora preso la briga di valutare in modo comprensivo l’enorme valore che così si dilapida. Ma la sensazione è che sia proprio questo lo spreco più grande, quello più urgente da limitare. Per farlo serve completare il sistema di fognatura e depurazione, ma anche ripensarlo in funzione del sistematico riuso agricolo e industriale, della reimmissione in falda, della laminazione delle acque meteoriche.