È il 1° maggio del 2023. Le prime immagini arrivano tramite i social network. Nessuno capisce inizialmente cosa stia realmente accadendo. Sono in un Frecciarossa diretta verso Milano, mi mandano un messaggio con scritto: Faenza si sta allagando, scendi e cerca di arrivare.
I primi piani delle case non sono visibili. Il caos intorno. I vigili del fuoco prendono di peso le persone e li adagiano sui loro gommoni. Gente che piange. Non hanno nulla tra le mani, solo gli animali che tengono coperti tra le braccia per paura che si tuffino in acqua.
Al palazzetto dello sport i letti sono stati posizionati vicini, stretti. Anziani e migranti. Non c’è democrazia in un’alluvione. Chi si può permettere un albergo paga, chi ha dei parenti viene ospitato, gli altri sono i figli del destino nelle mani dello Stato che fa quel che può nel pieno di un’emergenza. Il 16 maggio sono nello stesso argine. Il fiume ha spaccato. Si è insinuato. Faenza è di nuovo sotto l’acqua. Gli elicotteri dell'aeronautica volano in cielo con la pioggia infernale. Si calano, imbracano la gente. Portano in salvo chi riescono a prendere. Si vedono questi corpi che oscillano nel vuoto. Chi è rimasto sui tetti ha un telefono in mano per farsi notare. Urlano, ma nessuno li sente, è troppo forte il rumore della pioggia. I giorni a seguire diranno che mischiati a quelle urla c’erano le loro preghiere che chiedevano a Dio di non morire.
Due giorni dopo, quando l’acqua è calata, nelle case i muri sono crollati, spazzati via. Buchi enormi tra una stanza e l’altra. Il fango e le macerie.
Arrivo a Sant’Anna di Stazzema, per la paura che il motore si bruci perché l’acqua è troppo alta metto la partita della Roma contro il Leverkusen a tutto volume, ricordandomi di non togliere mai il piede dall’acceleratore e di non fermare l’auto.
Sant’Anna di Stazzema vuota, marrone. C’è una sola candela accesa dentro un appartamento. C’è il silenzio dell’abbandono, del paese svuotato, corso via dal cataclisma imminente e violento. Un uomo tenta di capire come stia la sua casa. Appare un sopravvissuto.
Passa un anno e torno a Faenza. È settembre. Incontro le stesse persone. L’imprenditore all’angolo con la sua officina meccanica sommersa. La copisteria. Il bar. Angelica, la signora “del borgo”, così lo chiamano il quartiere che a Faenza continua ad allagarsi, alla terza alluvione piange: “La mia casa non ha più valore, vorrei andarmene, ma nessuno vuole comprarla”. Prende il telefono e scorre le immagini di quel che è rimasto dentro: “Avevo ristrutturato, ma ora basta”.
Nasce da qui il podcast “Sete - un’indagine sul futuro che ci attende”, prodotto da La7 e promosso dal Gruppo Hera. Un evento, quello dell’alluvione in Emilia-Romagna, che ha svegliato l’Italia dal torpore, facendo capire a tutti noi come il cambiamento climatico modifica le nostre vite, disegna nuove economie, è in grado di far crollare i prezzi delle nostre case.
L’acqua bene primario. Ed è tra gli agricoltori siciliani che lo capisci, vedendo il grano che rimane piccolo, impossibile da raccogliere. Nel 2023 all’Italia mancava il 18% della risorsa idrica rispetto alla media degli ultimi 70 anni. Un valore migliore di quello del 2022, dove la fortissima siccità ha portato a un deficit addirittura del 50%. La scarsità d’acqua in Italia si sta aggravando, mentre le contromisure stentano a incidere. Il mar Mediterraneo si surriscalda più velocemente che nel resto del mondo e nuove specie animali arrivano nelle coste, mettendo a rischio la pesca. Il tutto mentre è in corso una sesta estinzione di massa, ma questa volta la colpa non è di un asteroide, come mi ha detto Telmo Pievani, filosofo evoluzionista, ma dell’uomo. Dal Cinquecento a oggi abbiamo perso tra le 150.000 e le 260.000 specie di organismi viventi.
Ma l’acqua è in grado di ridisegnare i confini, far fiorire i popoli. Fu il Nilo a dare vita all’Egitto. Hapi, il dio da cui dipendeva la produzione agricola, figurato nei bassorilievi templari, specie di Bassa Epoca, carico delle offerte che distribuiva, simbolo di abbondanza, così come le sue acque. Siamo figli del clima, come l’Impero Romano che visse un periodo di prosperità fino al 150 e.v.. È con un libro inchiesta di Kyle Harper, storico e classicista romano, che si fa sempre più strada l’ipotesi che una delle concause della caduta dell’Impero Romano sia stato il cambiamento del clima. Dopo il 150 e.v., periodo in cui l’impero raggiunse il suo massimo splendore, il clima iniziò a mutare, si verificarono siccità, raffreddamenti, aridità e interruzioni nelle inondazioni del Nilo.
“Le buone fortune non durano per sempre”, ha detto Andrea Rinaldo, premio Nobel per l’acqua, ed è per questo che dobbiamo mettere a sistema le nostre conoscenze e avere uno sguardo che non guardi all’oggi, ma anche al domani. Non per le future generazioni o per i nipoti che verranno, ma perché è nostro dovere preservare le risorse, proteggerle. L’acqua non è un bene infinito. L’acqua è un bene finito che stiamo giorno dopo giorno inquinando e, come disse Kofi Annan, premio Nobel per la pace, le prossime guerre saranno per l’oro blu, in un mondo dove già il cambiamento climatico è miccia che fa esplodere società ridotte allo stremo.
Ne è una prova il Ciad, uno degli stati più colpiti dal climate change. Qui uno dei laghi più grandi dell’Africa si è ormai prosciugato. Uno studio di Nature racconta come solo il 16% si arruola tra le file dei terroristi jihadisti di Boko Haram per motivi religiosi, il restante lo fa per fame. Quel lago che una volta dava lavoro, cibo, sostentamento, adesso non esiste più e i disperati imbracciano un fucile. La domanda non è quanto ci resta, ma cosa siamo disposti a fare.
Elena Testi - giornalista e inviata di La7, ha scritto il podcast “Sete - Un’indagine sul futuro che ci attende”, prodotto da La7 promosso dal Gruppo Hera