Nel 2022, l’Unione Europea ha vissuto la più grave crisi energetica degli ultimi decenni. Il supporto riconosciuto all’Ucraina a fronte dell’invasione russa e la conseguente riduzione dei flussi di gas verso l’UE hanno spinto i prezzi della materia prima a livelli record. Ciò si è tradotto in un aumento inatteso dei prezzi dell’elettricità, dell’energia per uso riscaldamento e dei carburanti per i trasporti che ha interessato famiglie e imprese. Man mano che i prezzi elevati colpivano i diversi settori economici, andava delineandosi una tendenza inflazionistica critica per le classi di reddito vulnerabili, evidenziandone gli impatti distributivi.
I combustibili fossili – petrolio, gas e loro derivati – costano ancora troppo poco per i danni che provocano all’ambiente e alla salute. In altri termini, la loro tassazione – nonostante sia in Italia tra le più alte al mondo, almeno su benzina e gasolio – non copre il costo delle esternalità negative. Questo costo va quindi “internalizzato”. Come? Aumentando le tasse su gas, petrolio e derivati (accise in primis), con l’introduzione di una carbon tax e/o con l’eliminazione di tutti gli “sconti” per particolari usi, settori economici o consumatori finali.
Di fronte all’avanzata della crisi climatica investire nella transizione ecologica è un imperativo per tutelare il benessere delle società umane, eppure in molti ancora si domandano se la spesa sia sostenibile per le finanze globali. Quello che in genere non sanno è che, ancora oggi, le risorse economiche dirette a favorire l’uso dei combustibili fossili valgono molto di più di quelle investite per abbandonarne l’uso.
Non è semplice tenere il conto, perché non c’è una metodologia univoca e condivisa tra i vari Paesi per stimare questi sussidi. Ma le indicazioni raccolte nel merito, in Italia come a livello internazionale, sono già in grado di delineare il fenomeno nella sua portata.
Mentre i leader del G20 si avviano al Summit di Delhi, uno studio recente dell’International Institute for Sustainable Development (IISD) insieme ad altri istituti di ricerca dimostra come il blocco delle principali economie mondiali abbia allocato una cifra record, pari a 1,4 bilioni di dollari, in fondi pubblici a supporto delle fonti fossili. Questa cifra, la quale include anche i sussidi agli idrocarburi (1 bilione di dollari), investimenti in compagnie di stato (322 miliardi di dollari) e prestiti da parte delle istituzioni finanziarie pubbliche (50 miliardi di dollari), rappresenta un chiaro promemoria della quantità di fondi pubblici che tuttora i governi del G20 continuano a canalizzare verso le fonti fossili, nonostante i riconosciuti pericoli derivanti da questa scelta e gli effetti distruttivi sul cambiamento climatico.