Periodicamente, la questione dei sussidi energetici torna sulle pagine dei giornali e infiamma il dibattito. Un recente report del Fondo Monetario Internazionale evidenzia come nel 2022 i sussidi ai combustibili fossili abbiano raggiunto la ragguardevole cifra di 7 trilioni di dollari. Non solo la cifra rappresenta il 7,1% del PIL mondiale, ma essa è aumentata di ben due trilioni rispetto al 2020, ovvero di quasi il 30%. L’impennata dei prezzi causata dalla guerra in Ucraina ha indotto i governi a intervenire, sussidiando l’energia, divenuta troppa cara per i consumatori. Di qui il balzo verso l’alto dei sussidi. Diverse istituzioni, ad esempio l’AIE o IISD/OECD hanno evidenziato il problema. L’Agenzia di Parigi, in particolare, ha posto all’attenzione pubblica la questione dei sussidi energetici da circa due decenni. Ma è solo in tempi recenti, in concomitanza con la crisi climatica, che il tema assurge a questione di rilevanza pubblica e internazionale: tutte le raccomandazioni degli esperti vanno in direzione dell’introduzione di una carbon tax, e dunque di una crescita dei prezzi dei prodotti derivanti dai fossili, laddove nella realtà accade il contrario e i fossili vengono sussidiati. Di qui lo scandalo.

D’altra parte, coloro che non condividono questa analisi sottolineano come i prodotti energetici di largo uso, ad esempio benzina e diesel, siano ampiamente tassati e, dunque, già oggi oggetto di una carbon tax implicita. I fautori di questa visione spesso si spingono a evidenziare come le vere beneficiarie dei sussidi siano le fonti rinnovabili, in primis eolico e solare, che non potrebbero competere sul mercato senza l’aiuto dei governi. Ma i sostenitori di tali fonti replicano che ormai esse sono competitive e già più economiche di quelle fossili.

Su questa materia incandescente, la cui trattazione esula dalle finalità di questo articolo, si riversa la questione dei sussidi. Secondo Irena, i sussidi alle fonti fossili sarebbero circa tre volte quelli alle rinnovabili, mentre in Europa sarebbero poco più del doppio. Di certo vi è un problema di numeri: ad esempio, per l’FMI i sussidi espliciti ai fossili sarebbero circa l’8% del PIL nell’area Medio Oriente e Nord Africa, mentre secondo l’ultimo report di Irena essi ammonterebbero all’1,56%. Chi ha ragione? FMI dice 7 trilioni di dollari di sussidi complessivi ai fossili nel 2022, l’AIE poco più di un trilione. L’abisso tra le due stime - la prima è il 700% della seconda - segnala, inequivocabilmente, che vi è una questione non banale di misurazione. Per approfondimenti rimandiamo al sito nel quale IISD e OECD forniscono dettagli sulle differenti metodologie di misurazione. Mentre per l’Italia, segnaliamo il sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica che offre una panoramica di elevato dettaglio delle diverse categorie di sussidi, ambientalmente dannosi (SAD) o favorevoli (SAF).

In linea generale, la divergenza nelle stime emerge poiché è possibile riversare nel grande contenitore dei sussidi diverse tipologie di spese: da benefici fiscali e finanziamenti di qualsiasi genere al settore fossile a flussi monetari o sconti in favore dei consumatori, fino alle esternalità associate ai combustibili fossili. Ed è proprio quest’ultima variabile, definita sussidio implicito, che viene contabilizzata dal Fondo Monetario Internazionale e che fa salire l’importo ai fatidici sette trilioni di dollari, costituendone la componente principale. Riportiamo qui di seguito una figura che illustra la metodologia FMI attraverso un semplice esempio.

Ruolo dei sussidi espliciti e impliciti nella formazione nei prezzi energetici

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Si assume che il prezzo alla pompa di un litro di benzina sia 0,30 doll., mentre il costo di produzione sia pari a 0,50 doll. Dunque, siamo in presenza di un sussidio esplicito pari a 0,20 doll. (cioè 0,50 – 0,30). A tale importo occorre aggiungere, secondo il FMI, 0,60 doll. associati a danni ambientali non contabilizzati (inquinamento locale dell’aria, congestione e incidenti stradali, global warming) + 0,15 doll. di IVA (ipotizzata pari al 14%) sui costi totali (0,3 + 0,2 + 0,6). In sintesi, nella visione del Fondo, il prezzo dovrebbe essere pari a 1,25 doll. ed è invece pari solo a 0,30 doll.: la differenza (0,95) è sussidio. La figura che segue mostra come i sussidi espliciti costituiscano solo una componente minoritaria di quelli totali e ciò riconcilia in gran parte la differenza di stima tra IEA e FMI. Il grafico è interessante anche perché, proiettandosi verso il futuro, esplicita la visione non proprio rosea dell’FMI. Dopo la contrazione successiva al 2022, legata alla decrescita dei prezzi energetici, i sussidi ai fossili tornerebbero ad aumentare a ragione dell’espansione della quota dei fossili nei paesi emergenti, dove i sussidi sono maggiori.

Andamento storico e atteso dei sussidi alle fonti fossili

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Va sottolineato come l’FMI tenga conto dell’elevata fiscalità sui prodotti energetici presente in diverse economie mature, tanto che in essi vi è coincidenza tra prezzo alla pompa e prezzo sociale ottimo. Ad esempio, secondo i dati FMI, in paesi quali l’Italia, la Germania, la Francia il prezzo pagato dai consumatori per la benzina è così elevato che già incorpora non solo la carbon tax ideale che dovrebbe coprire i danni associati al cambiamento climatico, ma anche i costi esterni associati all’inquinamento dell’aria, alla congestione e agli incidenti stradali. La stessa equivalenza tra prezzo di mercato e ottimo sociale non si verifica per il diesel, in nessun paese. Altro aspetto interessante è quello concernente la geografia (vedi figura seguente): i sussidi globali ai fossili sono spinti in maggior misura dall’area asiatica (EAC), mentre in termini percentuali (parte bassa del grafico), le aree che ne beneficiano maggiormente sono Medio Oriente e Nord Africa (circa 20% del PIL) e l’area CIS (Ex Unione Sovietica) dove raggiungono il 25% del PIL.

Distribuzione geografica dei sussidi alle fonti fossili (in valore assoluto e in % di PIL)

Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Al di là del grado di responsabilità delle diverse aree, di certo valutare i sussidi energetici è operazione estremamente complessa. Incorporare o meno le esternalità modifica radicalmente il risultato, ciò prescindendo dal tema notevolissimo e controverso di come contabilizzare i danni ambientali: la stima dell’FMI è solo una delle possibili.

È giusto incorporare le esternalità nei sussidi? Congestione e incidenti stradali non si verificherebbero anche con le auto elettriche? Certo, danni quali l’inquinamento dell’aria causano una crescita della mortalità che non è contabilizzata nei prezzi dei prodotti energetici. D’altra parte, non si può non riconoscere che quegli stessi prodotti energetici inquinanti abbiano avuto un ruolo chiave nello sviluppo economico e sociale dalla rivoluzione industriale in avanti, e ancora oggi, influenzando positivamente la stessa aspettativa di vita. Dunque, occorrerebbe contabilizzare anche questa esternalità positiva? Facciamo questa riflessione perché la contabilizzazione dei costi esterni pone, oltre al problema mai risolto della monetizzazione del danno, il tema più ampio dell’impatto positivo dei fossili sullo sviluppo della società. Se l’aspettativa di vita è passata dai 45 anni del 1950 agli odierni 73, lo si deve allo sviluppo sociale complessivo che si è verificato grazie a un paradigma energetico-industriale poggiante sui fossili. Nel bene e nel male, essi hanno reso possibile la grande crescita economica degli ultimi due secoli. Imputare a essi solo il male ci sembra operazione concettualmente non corretta. Al contrario, ci sembra più utile un approccio pragmatico che, riconoscendo che due terzi delle emissioni dei gas serra derivano dai fossili, ambiscano alla loro limitazione. Di qui l’opportunità di ridurne i sussidi. In parole povere, va fatto al di là della questione della monetizzazione del danno.

Detto questo, rimane intatto di fronte a noi il problema del perché esista un abisso tra teoria e pratica. Perché nella vita pratica si continuano a dare sussidi alle fonti fossili - al punto che lo stesso FMI assume che nel decennio in corso non verranno ridotti - se la teoria economica invita a non farlo? Qual è la ragione di questa contraddizione? Una prima risposta, la più semplice e banale, è che è sempre estremamente complicato togliere oggi alla società ciò che le è stato dato ieri. Occorrerebbe una leadership politica forte e coraggiosa, che non c’è. Ed ecco la seconda spiegazione, anch’essa semplicistica: i policy maker non sono all’altezza dei loro compiti e sussidiano l’energia perché non hanno competenza - o coraggio o visione, o tutte e tre le cose insieme - per applicare ciò che suggerisce la teoria economica. Una terza risposta, più articolata, fa riferimento all’intreccio inestricabile società-fossili: i secondi sono consustanziali alla prima e dunque ogni tentativo di eliminazione si spegne sul nascere in un pantano di complessità burocratiche e di resistenze lobbistiche. Su questo rimandiamo all’articolo di Cleantechnica “Why Are Fossil Fuel Subsidies So Hard To Eliminate?” che offrirà al lettore anche una panoramica delle diverse definizioni di sussidi, ben tredici.  Infine, pur non negando i deficit gestionali della classe politica alle diverse latitudini e l’intreccio fossili-società, vi è una terza spiegazione possibile: nonostante i loro limiti ambientali e la loro regressività - ovvero il loro favorire maggiormente le classi ricche che  hanno consumi energetici maggiori - i sussidi rappresentano una sorta di rete di sicurezza sociale, una leva che il policy maker utilizza per depotenziare la tensione sociale, specialmente nei paesi poveri o emergenti.  Ma anche le aree benestanti sono soggette al medesimo potenziale punto di rottura della coesione sociale. Citiamo a tale proposito il caso studio delle rivolte dei gilet gialli in Francia nel 2018, indotte proprio dall’introduzione da parte della presidenza Macron di una carbon tax crescente negli anni. Più recentemente, i sussidi europei, conseguenti agli incrementi di prezzo dell’energia causati dalla guerra in Ucraina, rappresentano l’evidenza maggiore dello scudo che i governi creano a beneficio dei consumatori quando i prezzi energetici superano certi limiti. Secondo il think tank Bruegel, i paesi europei hanno speso oltre 750 miliardi di euro per aiutare le famiglie contro gli elevati prezzi energetici.

Più in generale, la crisi ucraina – generando una sorta di carbon tax implicita, subito stoppata – ha dimostrato tutta la complessità dell’attuazione delle politiche climatiche. Di fronte a prezzi energetici alle stelle, la verde Europa non ha esitato a sussidiare l’energia, in larga parte fossile, nonché a riaccendere le centrali a carbone. In ultimo, la contraddizione tra teoria e pratica è figlia dell’ordine di priorità della società: lo sviluppo e la crescita, e la coesione sociale, vengono prima della protezione dell’ambiente. Si torna all’antropologia e al Dna imperituro di Sapiens: il presente è più importante del futuro.

 

Nota: le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.