Di fronte all’avanzata della crisi climatica investire nella transizione ecologica è un imperativo per tutelare il benessere delle società umane, eppure in molti ancora si domandano se la spesa sia sostenibile per le finanze globali. Quello che in genere non sanno è che, ancora oggi, le risorse economiche dirette a favorire l’uso dei combustibili fossili valgono molto di più di quelle investite per abbandonarne l’uso.
Non è semplice tenere il conto, perché non c’è una metodologia univoca e condivisa tra i vari Paesi per stimare questi sussidi. Ma le indicazioni raccolte nel merito, in Italia come a livello internazionale, sono già in grado di delineare il fenomeno nella sua portata.
Secondo il V Catalogo pubblicato quest’anno dal ministero dell’Ambiente e relativo al 2021, i sussidi ambientalmente dannosi (Sad) garantiti annualmente dallo Stato italiano ammontano a 22,4 mld di euro, coi sussidi alle fonti fossili a fare la parte del leone (14,5 mld di euro).
Si tratta di cifre ben più ampie rispetto a quelle garantite ai sussidi ambientalmente favorevoli (18,6 mld di euro), mentre resta vasto il campo dei sussidi di incerta classificazione (11,4 mld di euro).
In totale sono le 168 sovvenzioni passate in rassegna dal ministero nella versione aggiornata del Catalogo, spaziando dai sussidi diretti (come trasferimenti di fondi o concessioni) a quelli indiretti (come spese fiscali, esenzioni, agevolazioni).
Più nel dettaglio, il podio dei Sad più gravosi tra quelli censisti dal ministero dell’Ambiente è composto dal differente trattamento fiscale fra benzina e gasolio (3,4 mld di euro), seguito dall’Iva agevolata per la cessione di case di abitazione non di lusso (2,6 mld di euro) e dal rilascio delle quote assegnate a titolo gratuito nel mercato delle emissioni Eu-Ets (2,4 mld di euro).
Com’è dunque evidente, la semplice cancellazione dei Sad in molti casi potrebbe portare a ricadute negative sulle fasce meno abbienti della popolazione; si tratta di un problema che riguarda molta della fiscalità ambientale che per sua natura si presenta come regressiva, gravando ovvero di più sui redditi bassi rispetto a quelli alti.
Per questo è indispensabile accompagnare simili misure con interventi correttivi o destinazioni del gettito adeguate (ad esempio a favore di interventi contro la povertà), in modo da renderli equi e sostenibili dal punto di vista sociale, anziché ambientali.
Del resto è lo stesso Catalogo ministeriale ad aver proposto, fino alla sua IV edizione, un’analisi costi benefici a livello macroeconomico: riallocando sussidi ai combustibili fossili per circa 12 mld di euro annui, il Ministero mostra che in tutti gli scenari analizzati diminuirebbero le emissioni di gas serra italiane, e nei due terzi dei casi aumenterebbero anche Pil e occupazione.
E se questa è la stima governativa, le fonti ambientaliste sono ancora più nette nel delineare la necessità di una rapida uscita dai sussidi alle fonti fossili.
Nel report pubblicato nel novembre scorso da Legambiente, il Cigno verde analizza 76 voci diverse di sussidi diretti e indiretti – prendendo come fonti il Catalogo e il bilancio dello Stato, oltre a dati Terna, Arera, Gse, Ocse e dell’allora ministero dello Sviluppo economico – fino a stimare i sussidi italiani alle fonti fossili in 41,8 mld di euro (relativi al 2021).
Secondo gli ambientalisti, sui 76 sussidi censiti in almeno 32 casi – pari a 14,8 mld di euro annui – è possibile intervenire entro il 2025, a partire dal già citato differenziale tra benzina e gasolio, dalle quote gratuite e dai prestiti e garanzie pubbliche nel settore energia (1,5 mld di euro).
Anche gli aiuti contro la crisi energetica messi in campo dal Governo avrebbero dovuto essere meglio indirizzati: prendendo in esame gli 8 decreti legge approvati nel merito tra gennaio e settembre 2022, pari a un ammontare stimato in 38,9 mld di euro, Legambiente osserva infatti che se «fossero stati investiti in impianti solari fotovoltaici avrebbero permesso di realizzare almeno 194 mila impianti da 50 kW da destinare ad utenze domestiche e piccole imprese, per una potenza complessiva di 9,7 GW, potenza in grado di generare 14,6 TWh/anno di energia elettrica per i prossimi almeno 20 anni, pari ai consumi di circa 5,8 milioni di famiglie. Quasi il doppio del numero di famiglie che in Italia oggi si trovano in una condizione di povertà energetica».
Se questi sono i termini del dibattito sui sussidi ambientalmente dannosi entro i patri confini, a livello internazionale spicca per interesse e autorevolezza l’approccio adottato prima dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e poi fatto proprio anche dalla Banca mondiale (all’interno del rapporto Detox development pubblicato a giugno).
Il nuovo studio Imf fossil fuel subsidies data: 2023 update, pubblicato poche settimane fa dal Fmi, documenta che nel 2022 l’Italia ha garantito sussidi alle fonti fossili per 63 mld di dollari, pari al 2,8% del Pil nazionale o, detto altrimenti, a oltre mille dollari procapite.
Anche l’analisi del Fmi suddivide i sussidi ai combustibili fossili in espliciti, ovvero una sottoquotazione dei costi di fornitura – le spese governative dirette a tenere artificialmente bassi i prezzi, come nel caso dei sussidi contro il caro energia – e in sussidi impliciti, cioè la sottostima dei costi ambientali dei combustibili fossili e rinunce alla tassazione sul loro consumo.
In Italia, il Fmi stima circa 54 mld di dollari di sussidi impliciti contro i circa 10 attribuiti ai sussidi espliciti.
«Con i prezzi globali dell’energia in calo e le emissioni in aumento – argomentano i ricercatori del Fmi – è il momento giusto per eliminare gradualmente i sussidi espliciti e impliciti ai combustibili fossili, per un pianeta più sano e sostenibile».
Stimando i risultati di una simile operazione a livello globale, i vantaggi emergono evidenti: -1,6 mln di morti l’anno e +4,4mila miliardi di dollari di entrate fiscali per gli Stati.
L’enormità di tale gettito, naturalmente, fa da contraltare ai costi in crescita che i consumatori dovrebbero pagare per impiegare prodotti basati sui combustibili fossili. Anche in questo caso, il Fmi pone dunque l’accento sulla necessità di cancellare i sussidi applicando al contempo misure di sostenibilità sociale.
Nel caso italiano, l’approccio probabilmente più equo e produttivo starebbe nella cancellazione dei sussidi ambientalmente dannosi all’interno di una più ampia riforma fiscale nel segno della progressività, peraltro iscritta nell’articolo 53 della Costituzione italiana, ma ad oggi solo blandamente attuata.