Per promuovere la sostenibilità vi sono molti strumenti, ma uno fondamentale è senz’altro quello di indirizzare i flussi finanziari verso “attività ambientalmente sostenibili”. È da questo convincimento che è nato il Regolamento europeo 2020/852 sulla finanza sostenibile con l’obiettivo di “stabilire i criteri per determinare se un’attività economica possa considerarsi ecosostenibile, al fine di individuare il grado di ecosostenibilità di un investimento”. Bisogna partire da qui per capire che all’origine c’è un intendimento definitorio (dar vita a una “tassonomia”) che crea inevitabilmente uno spartiacque tra “buoni” (le attività sostenibili) e “cattivi” (le attività non sostenibili). Il lodevole intento di indirizzare la finanza a sostegno degli investimenti di attività “ecosostenibili”, nella sua applicazione, non poteva perciò non suscitare conflitti tra posizioni basate anche su giudizi di valore.

Il Regolamento sulla finanza sostenibile ha trovato la sua prima applicazione nel Regolamento delegato 2021/2139 che “fissa i criteri di vaglio tecnico (CVT) che consentono di determinare a quali condizioni si possa considerare che un'attività economica contribuisce in modo sostanziale alla mitigazione dei cambiamenti climatici o all'adattamento ai cambiamenti climatici e se non arreca un danno significativo a nessun altro obiettivo ambientale”. Questo enorme documento (349 pagine!) definisce analiticamente le condizioni (i CVT) di ottantotto attività (di cui venticinque nel settore energetico) per potere rientrare tra quelle considerate “ecosostenibili”. Come è facilmente intuibile, durante l’elaborazione del Regolamento delegato vi sono state discussioni e conflitti non solo sulle attività da includere o meno nell’elenco della “tassonomia”, ma anche sui criteri e sui valori da soddisfare da parte di ogni attività per essere considerata sostenibile.

Nel Regolamento del 2021, tra le tecnologie sostenibili, non c’erano né gli impianti a gas naturale né gli impianti nucleari, seppure per ragioni diverse. Questa esclusione dava senz’altro soddisfazione alla maggioranza degli ambientalisti, ma urtava le posizioni di alcuni Paesi che ricorrono in modo massiccio all’energia nucleare e al metano. In astratto, il fatto di non essere inseriti nella “tassonomia” ha un impatto limitato. La tassonomia definisce, infatti, gli investimenti finanziabili dalla “finanza sostenibile”, ma non obbliga a rinunciare alle attività non incluse nell’elenco e non proibisce neppure che siano finanziati nuovi investimenti. Al massimo fa sì che le condizioni di finanziamento dei nuovi impianti non inclusi nella tassonomia siano leggermente peggiori che se questi impianti fossero classificati “sostenibili”. Tuttavia, come abbiamo accennato, se la tassonomia crea un discrimine tra buoni e cattivi, a nessuno piace essere classificato permanentemente tra i cattivi, soprattutto se ha intenzione di rimanere ancorato a una certa attività o tecnologia.

L’insistenza di alcuni Paesi, in particolare quelli con centrali nucleari non intenzionati a rinunciarvi (a cominciare dalla Francia), ha fatto sì che quest’anno sia stato approvato il Regolamento delegato complementare 2022/1214 che aggiorna il Regolamento 2021/2139 includendo nella tassonomia anche l’energia nucleare e gli impianti che usano gas naturale. La decisione, come era scontato, non ha mancato di suscitare riprovazione da parte di molti ambientalisti. Dal loro punto di vista, il nucleare è visto come il paradigma delle attività pericolose durante l’esercizio e con scorie pericolose per millenni, mentre il gas è considerato come una fonte non rinnovabile e la cui combustione emette CO2, oltre a comportare fughe di metano, che è un gas serra ancora più climalterante. Meno scontato era leggere dichiarazioni di alcuni partiti politici che hanno parlato di “contraccolpo doloroso e vergognoso per l’Europa”. Ad esempio il gruppo socialista e democratico del Parlamento europeo ha votato contro il “regolamento complementare” della tassonomia perché nucleare e gas non sono né “green” né “sustainable” e, includendoli nella tassonomia, si lancia “un messaggio politico sbagliato”.

Ma che cosa significa “green”? Che non emette CO2? Ma allora il nucleare, secondo un rapporto UNECE del 2021, è la fonte in assoluto che emette meno CO2 per kWh calcolata con il metodo LCA. Che non ha impatti ambientali? Ma esiste una fonte energetica che non abbia impatti ambientali “dalla culla alla bara”? E anche il gas, a nostro avviso, non può essere giudicato in termini assoluti, ma relativi. Se si usa gas al posto del carbone o dell’olio combustibile si emette più o meno gas a effetto serra? E l’uso del gas è un ostacolo all’utilizzo delle fonti rinnovabili o può accompagnarne lo sviluppo senza ostacolarlo?

E che cosa significa “sostenibile”? Che può durare all’infinito? A parte che si fa molta fatica a concepire non solo l’infinito, ma anche un orizzonte temporale di millenni, non si può non riconoscere che le risorse per produrre energia nucleare bastano per secoli (con il riutilizzo del combustibile irraggiato) e il problema del gas non è tanto l’esaurimento delle risorse fisiche (comunque abbondanti), quanto il suo utilizzo ora e nei prossimi decenni per ridurre le emissioni se si usano fonti alternative, atteso che lo sviluppo delle rinnovabili (che tutti auspichiamo sia il più rapido possibile) non sarà in grado di sostituire tutti i combustibili fossili per molti decenni.

Ma, a nostro avviso, il tenore delle polemiche dopo l’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia mostrano bene che ci si ferma solitamente a ribadire posizioni di principio anziché esaminare il testo del Regolamento. Se si facesse questo sforzo, ci si renderebbe conto che i CVT non aprono affatto a una facile inclusione di queste due fonti tra quelle “taxonomy compliant”. A questo riguardo faremo qualche considerazione con riferimento specificatamente alla situazione italiana e alle sue prospettive.

Per quanto riguarda la “costruzione e la gestione sicura di nuove centrali nucleari”, tra le numerose condizioni indicate dai CVT per essere “taxonomy compliant” basti ricordare l’obbligo di avere in esercizio un deposito dei rifiuti di bassa e media attività e di avere un piano dettagliato per l’entrata in funzione, entro il 2050, di un impianto di smaltimento di rifiuti radioattivi ad alta attività. Se si considera che l’Italia da vent’anni almeno sta cercando di realizzare un deposito dei rifiuti radioattivi a bassa-media attività e che non se ne vedono ancora le prospettive concrete è facile capire come il nostro Paese, oltre ai numerosi ostacoli che si frapporrebbero alla costruzione di nuove centrali nucleari, difficilmente potrebbe mettersi in regola con la tassonomia per le centrali nucleari. Non è comunque superfluo sottolineare che i criteri della tassonomia non sono l’ostacolo maggiore per l’eventuale ripresa di un impegno nucleare per paesi come l’Italia: le difficoltà per ottenere l’accettabilità sociale e la mancanza di convenienza economica bastano per rendere questa prospettiva altamente teorica.

Un’importanza ben maggiore per l’Italia hanno le disposizioni riguardanti l’esercizio e la costruzione di nuovi impianti elettrici alimentati a gas. L’Italia alla fine del 2020 (dati TERNA) aveva 41,8 GW di impianti termoelettrici alimentati a gas (il 96% alimentabili solo da questo combustibile) e questi hanno prodotto ca il 48% della produzione elettrica nazionale. Inoltre, in base alle aste di capacità di TERNA, sono in costruzione o in programma 5-7 GW di impianti CCGT alimentati a gas che dovrebbero rimanere in funzione per almeno 15 anni. Questi impianti sono conformi ai CVT della tassonomia? È molto difficile pensarlo sia per gli impianti esistenti (che comunque necessitano di investimenti limitati) sia per gli impianti nuovi. Consideriamo solo i criteri riguardanti le emissioni di CO2. Per essere “taxonomy compliant” gli impianti in esercizio devono emettere meno di 100 g CO2e/kWh calcolati con la metodologia LCA. È chiaro che questo limite può essere rispettato solo attraverso la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS) di cui però (purtroppo) non sono previsti programmi di sviluppo nel nostro Paese (né in Europa). Se consideriamo, invece, i nuovi impianti, la prima delle sette condizioni previste richiede che gli impianti autorizzati entro il 31 dicembre 2030, per essere conformi, non devono avere emissioni dirette superiori a 270 g CO2/kWh oppure avere emissioni medie annue inferiori a 550 kg CO2e/kW della capacità dell’impianto nell’arco di vent’anni. La prima delle due condizioni è tecnicamente impossibile da ottenere anche dagli impianti CCGT più avanzati attuali (classe H) perché dovrebbero avere un rendimento del 75%, mentre non superano il 62-63%. La seconda condizione si può ottenere solo limitando il numero di ore di funzionamento dell’impianto, perciò con una forte penalizzazione economica per un investimento da effettuarsi. Ad esempio, un impianto con rendimento del 62% non potrebbe funzionare a piena potenza per più di 1.690 ore all’anno per non emettere più di 550 kg CO2. A ciò si aggiungono le altre sei condizioni che, ad esempio, limitano la potenza massima installabile. In sintesi, non si vede come i nuovi impianti CCGT installabili in Italia possano essere “taxonomy compliant” se non installando anche impianti di CCS (oggi non allo studio) o limitando fortemente le ore di funzionamento.

Da quanto precede emerge che il dibattito sull’inclusione nella tassonomia europea delle attività sostenibili di nucleare e gas naturale si è polarizzato più su un astratto principio generale (queste due attività possono essere considerate sostenibili o meno) che sull’esame delle reali condizioni in base alle quali gli impianti nucleari o a gas potranno essere finanziati come “ecosostenibili”. Questa polarizzazione ideologica che non fa i conti con la distanza tra desideri o interpretazioni e realtà non è certo esclusiva di questi casi e può colpire anche altre attività che, a parole, sono sostenute da (quasi) tutti, ma, nei fatti, non riescono ad essere “taxonomy compliant”. Ad esempio, malgrado il REPowerEU indichi l’obiettivo di produrre 35 miliardi di metri cubi di biometano (perciò rinnovabile) entro il 2030,  da un esame condotto dall’Osservatorio Gas Rinnovabili della Bocconi risulta che ben poca produzione di biogas potrà soddisfare i criteri della tassonomia e quindi che l’obiettivo UE è quasi impossibile da raggiungere.