In questo periodo complicato e drammatico, a causa della guerra russa all’Ucraina e della crisi energetica e industriale, iniziata nell’estate del 2021 e poi aggravata dal conflitto, il nuovo (ma è veramente così?) “trilemma” dell’energia sta costringendo l’Europa a considerare più seriamente e con più realismo il tema.

Di colpo ci siamo accorti, infatti, che le scelte sull’energia devono contemporaneamente: i) contrastare il riscaldamento globale - un dovere verso il Pianeta e le generazioni future che non può essere sospeso neanche da una guerra, ii) ridurre la dipendenza energetica e strategica dall’estero, iii) limitare i costi e sostenere la ripresa economica del continente.

È per questi motivi che ha preso ancora maggior valore la decisione della Commissione Europea di includere nucleare e gas naturale nella tassonomia verde. Nella votazione del 4 luglio 2022, il Parlamento EU non ha respinto la proposta della Commissione, risultato atteso ma non scontato.

Va subito detto che la scelta di includere le due fonti è stata dettata da accordi politici, tra Francia e Germania soprattutto, ben prima che il problema energetico esplodesse. La Francia non voleva che il nucleare fosse escluso, la Germania - politicamente contraria - ha ottenuto in cambio l’inserimento del gas, pensando allo sfruttamento del Nord Stream 2. Ma la guerra ha cambiato lo scenario.

In realtà, se guardiamo al trilemma energetico, il nucleare ha caratteristiche peculiari rispetto al gas. Lo stesso è vero anche nei confronti delle rinnovabili, dal punto di vista tecnico-scientifico, industriale ed economico.

i) Il nucleare è “green”, se consideriamo le emissioni in atmosfera di gas climalteranti durante l’intero ciclo di vita delle centrali, dalla costruzione al funzionamento sino allo smantellamento. Nei documenti dell'IPCC sono riportati valori di circa 12 grammi di CO2 equivalente emessa per ogni kWh elettrico prodotto con l'energia nucleare o con quella eolica, valore che sale al doppio per l'idroelettrico e al quadruplo per il fotovoltaico. Valori quasi trascurabili, se confrontati con i 490 grammi del gas naturale e gli 820 grammi del carbone. Se il global warming è il problema capitale, non è realistico e nemmeno ragionevole fare a meno di una fonte che in Europa rappresenta oggi oltre il 40% dell'elettricità prodotta in modo “sostenibile”.

ii) Il nucleare riduce la dipendenza strategica dall’estero, poiché è un ciclo industriale quasi interamente europeo. Infatti, dalla progettazione alla costruzione, gestione e smantellamento delle centrali nucleari, dall’arricchimento alla fabbricazione del combustibile, la tecnologica, il know-how e le capacità realizzative sono interamente europee (e pure italiane). Solo l’approvvigionamento dell’uranio naturale avviene fuori dal continente, sebbene alcuni giacimenti esistano anche in Europa. Ma ci si può rifornire senza rischi da Australia e Canada.

iii) Il nucleare ha un impatto positivo su industria ed economia europee, perché coinvolge una filiera industriale continentale diffusa, fatta da una manifattura sia “pesante” sia “leggera”, da infrastrutture civili importanti e da servizi ad alto valore aggiunto. È una filiera di alta qualità. La ricaduta economica in Europa di ogni euro investito nel nucleare si può stimare in almeno l’80%. Inoltre, la programmabilità della produzione e la stabilità dei costi di generazione sono fattori unici per le aziende e per il mercato elettrico.

Circa il tema della sostenibilità del nucleare e dei rischi associati per persone e ambiente, si rimanda al corposo report di oltre 300 pagine prodotto dal Joint Research Centre (l’organizzazione di ricerca dell’Unione Europea) e utilizzato dalla Commissione Europea per giustificare l’inclusione dell’atomo nella tassonomia.

Non deve quindi sorprendere, se ci si rende improvvisamente (e finalmente) conto che l’Europa ha una disperata necessità di utilizzare un approccio più pragmatico, “sostenibile” ed “inclusivo”, nell’individuare la propria, adeguata ed efficace strategia energetica.

Ma con quali tecnologie nucleari, attuali e future, si potrà aiutare l’Europa a realizzare le promesse sulle emissioni e sulla transizione ecologica?

Il contributo può giungere da reattori di varie “generazioni”, ossia evoluzioni tecnologiche, da oggi ai prossimi decenni.

Innanzitutto, dall’estensione di vita per molti degli oltre 400 reattori di II Generazione attualmente in esercizio, costruiti negli anni ’70-‘90. In gran parte dovrebbero essere chiusi nel prossimo decennio, dopo 30-40 anni di vita. Tuttavia, i margini di sicurezza adottati in fase di progettazione, la qualità costruttiva e la buona gestione operativa, spesso rendono queste macchine ancora idonee alla produzione per altri 10-20 anni, di norma dopo qualche aggiornamento dei sistemi di sicurezza e dopo la sostituzione di alcuni componenti con altri con prestazioni migliorate.

Un secondo contributo nei prossimi anni arriverà dai nuovi reattori di III Generazione. Difficilmente, però, da quelli realizzati nel mondo occidentale, a meno di profonde ri-progettazioni, come i francesi hanno iniziato a fare. Questi impianti sono ancora in completamento in Francia, Stati Uniti e Finlandia, mentre sono già operativi in Cina, Russia, Corea del Sud, Giappone e persino negli Emirati Arabi Uniti. Tra le due esperienze esiste una sostanziale differenza: quelli realizzati in Occidente, hanno subito imbarazzanti ritardi di oltre 10-12 anni e incrementi dei costi intorno al 200-300%. Mentre gli identici reattori sono già in funzione in Estremo e in Medio Oriente, dopo ritardi e costi aggiuntivi contenuti e tutto sommato 'fisiologici', essendo realizzazioni First-Of-A-Kind.

Il terzo contributo sarà quello dei piccoli reattori modulari, o Small Modular Reactors (SMR), già disponibili in Russia e Cina ma destinati a maturare entro il 2030 nel resto del mondo. Si tratta di reattori di dimensioni ridotte, solitamente comprese tra 100 e 300 MWe per modulo. Gli SMR sono progettati per essere costruiti principalmente in officina, cioè in un ambiente più controllato, quindi trasportati e assemblati in loco. Ciò garantirebbe tempi e costi più certi e ridotti, quindi un minor rischio finanziario. L’installazione di moduli in successione, favorita dalla modularità, consentirà anche un effetto di autofinanziamento: mentre un modulo produce elettricità, con i guadagni si co-finanzia la realizzazione del modulo successivo. Gli SMR apriranno anche opportunità per la cogenerazione, come il teleriscaldamento, la desalazione dell'acqua, la produzione di biocarburanti e, non ultima, la produzione di idrogeno.

Il quarto contributo, disponibile intorno al 2040, sarà quello dei reattori di IV Generazione, molto diversi da quelli attuali, che promettono un ulteriore passo avanti in termini di sicurezza e sostenibilità del ciclo del combustibile, soprattutto attraverso il riciclo dei rifiuti a lunga vita e ad alta radioattività, quelli più pericolosi. In questo modo, la durata della radiotossicità dei rifiuti sarà drasticamente ridotta, da oltre 100.000 anni a meno di 300. Per raggiungere questi obiettivi si stanno sviluppando reattori che non sono più raffreddati ad acqua ma con piombo o sodio liquidi oppure con sali fusi. La prima dimostrazione di questa nuova soluzione di riciclo, il progetto “Proryv”, è già in costruzione in Russia e dovrebbe essere completata entro il 2030.

Infine, il quinto contributo: i reattori a fusione. Un passo importante nel percorso che porterà alla futura fase commerciale dell'energia da fusione sarà compiuto intorno al 2028, anno previsto per l'accensione del reattore ITER, il grande progetto internazionale in costruzione a Cadarache, in Francia, e al quale l'Europa sta collaborando con Cina, Corea del Sud, Giappone, India, Russia e Stati Uniti. Realisticamente, però, sembra difficile pensare di avere la prima centrale nucleare a fusione commerciale e collegata alla rete prima del 2050.

Una politica europea sul nucleare, condivisa dalle nazioni che lo vogliono (non sono poche) e riconosciuta e supportata dalla EU, potrebbe quindi essere basata su tre pilastri: estensione di vita delle centrali attualmente in funzione, sviluppo di nuove tecnologie per la fissione (dalla profonda revisione dei progetti dei reattori di III Generazione, ai piccoli reattori modulari, sino alla IV Generazione), impegno per la futura tecnologia a fusione.

In questo quadro l’Italia potrebbe fare la sua parte, collaborando con le proprie imprese, università e centri di ricerca, su tutti e tre i versanti, nel quadro di una partnership europea. Basta che lo voglia.