Con 278 voti favorevoli e 328 contrari, lo scorso 6 luglio il Parlamento europeo ha respinto il veto sull’introduzione di gas e nucleare nella tassonomia europea proposta dalla Commissione. Si perde così un’importante occasione per eliminare l’atto delegato, proposto della Commissione e appoggiato da molti Stati Membri, che aggiunge l’energia elettrica generata da queste due fonti all’elenco delle tecnologie sostenibili e allineate alla transizione ecologica, e che entrerà dunque in vigore il 1° gennaio 2023.

Al di là delle opinioni sul ruolo che queste tecnologie possano avere nella transizione, classificare gas e nucleare come attività pienamente ‘verdi’ è chiaramente contrario al buon senso oltre che alle raccomandazioni scientifiche che stanno alla base della tassonomia. L’impatto di questa scelta, inoltre, rischia di essere negativo non solo in chiave climatica, ma anche in termini economici.

La conseguenza più evidente di una tassonomia con gas e nucleare è la perdita di credibilità di uno strumento pensato per offrire maggiori certezze agli investitori. Il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Green Deal europeo impone una rapida trasformazione del sistema economico ed energetico nei prossimi anni in senso sostenibile, e questo renderà obsoleti moltissimi asset legati al fossile. Questo avrà un impatto finanziario negativo significativo per chi ha investito in tecnologie non compatibili con gli obiettivi climatici, che potrebbero trovarsi senza mercato nel giro di pochi anni. La tassonomia dovrebbe identificare chiaramente e senza ambiguità i prodotti finanziari che sono esenti dal rischio clima. L’inclusione del gas nella tassonomia espone invece chi investe in prodotti verdi ad investimenti gravati da questo rischio, in maniera spesso inconsapevole.

Un ulteriore rischio legato all’inclusione di gas e nucleare è quello di disperdere i capitali verdi privati distraendoli dalle tecnologie rinnovabili e abilitanti (come stoccaggi e batterie, reti, sistemi intelligenti di gestione della domanda) necessarie per la transizione.

Le centrali a gas, per essere classificate come ‘verdi’, dovranno impegnarsi a riconvertire a gas rinnovabili o fonti a basso contenuto di carbonio (come biometano, idrogeno e metano sintetico) entro il 2035. Questa riconversione è però altamente inefficiente e un inutile spreco di risorse. Se prendiamo a riferimento l’idrogeno verde e consideriamo le perdite di efficienza (stimate in aggregato al 64%) che si verificano ad ogni passaggio dalla produzione, al trasporto e consumo di energia elettrica, emerge che occorrono 2,8 kW di elettricità verde per produrre l’idrogeno necessario per generare 1 kW di elettricità da una centrale a idrogeno.  Questo enorme spreco di energia green è insostenibile e insensato a fronte della necessità di massimizzare la produzione di energia da fonti rinnovabili nei prossimi decenni. L’idrogeno verde, infatti, che ha un importantissimo ruolo nella decarbonizzazione dei settori industriali come il siderurgico, non trova una sua giustificazione economica come fonte termica per la produzione di energia elettrica. Bisognerebbe invece puntare sull'elettricità prodotta da fonti rinnovabili, i cui costi di generazione sono già molto competitivi rispetto all'attuale caro gas e che da qui alla fine di questo decennio saranno via via decrescenti e stabilmente più bassi rispetto sia al gas di origine fossile che ai gas rinnovabile. Per il nucleare, al di là della complessa e irrisolta gestione delle scorie (peraltro non compatibile con il principio di ‘non provocare danni significativi’ che sta alla base della tassonomia), l’esperienza del terzo reattore di Flamanville in Francia - non ancora terminato dopo 14 anni dall’inizio dei lavori e molto più costoso del previsto-, o quella della centrale di Olkiluoto in Finlandia, completata dopo 17 anni e con budget più che triplicato, dimostrano come questi progetti siano di lunghissimo periodo e antieconomici. Una centrale nucleare approvata quest’anno non sarebbe costruita in tempo per contribuire agli obiettivi climatici del 2030, e una approvata vicino al limite del 2045 imposto dalla tassonomia sarebbe del tutto irrilevante per gli sfidanti obiettivi di decarbonizzazione del 2050.

Se guardiamo in particolare all’Italia, che non beneficerà in ogni caso di questa inclusione dato che non ha un programma nucleare e che il fabbisogno di generazione a gas è già garantito dal capacity market, una tassonomia senza gas e nucleare avrebbe significato una maggiore disponibilità di credito a basso costo per le piccole e medie imprese, che hanno un disperato bisogno di questi investimenti per affrontare la transizione.

Infine, l’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia avrà un impatto sulla credibilità climatica dell’Europa in ambito internazionale, dimostrando meno ambizione di Russia e Cina su questi temi. È plausibile che questo possa portare ad un abbassamento globale degli standard di altre tassonomie, determinando una corsa al ribasso degli standard di altri paesi. La Corea del Sud, ad esempio, nonostante forti critiche, ha annunciato qualche mese fa sulla scorta delle intenzioni europee - ora confermate, l’inclusione del gas all’interno della propria tassonomia. Se il segnale che viene inviato a livello internazionale è di bassa ambizione, l’Europa perde un’occasione unica di influenzare il mix energetico di nazioni terze verso maggior sostenibilità.

La strada legislativa per fermare l’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia è purtroppo conclusa con il voto del Parlamento europeo, ma si apre ora con ogni probabilità la strada del contenzioso legale. Alcune organizzazioni di società civile ed alcuni paesi membri (Austria e Lussemburgo) hanno indicato l’intenzione di riferire l’atto delegato alla Corte europea di Giustizia. La questione dunque, con ogni probabilità, non verrà chiusa in maniera definitiva ancora per diversi anni.