Attenuata dalla distanza e dalla ripetitività, la voce del G7 ha lambito le orecchie della società civile che, distratta, si è girata dall’altra parte. Troppo fiacca per suscitare interesse. Più che una voce, un’eco. Di cosa? Dei vertici inflazionati dei potenti, dei meeting ricorrenti in questa o quell’amena località dell’Occidente o dell’Oriente, dei precedenti G7, centri di negoziazione e di dibattito da cui, periodicamente, emanano tenui dichiarazioni difficilmente distinguibili l’una dall’altra. Con lavoro certosino, gli sherpa limano parole e frasi che poi, i leader di turno, firmeranno. La società civile, però, non si accorge, né potrebbe, di quel lavoro febbrile, spesso notturno, vere corse contro il tempo per riaffermare questo o quel principio. La società, è questa l’impressione, si gira dall’altra parte, quasi avesse scontato la debolezza operativa di quei testi. Le parole restano parole e il gioco della retorica non seduce più il cittadino. Quasi che egli avesse compreso che i potenti, in ultimo, non sono così potenti e che troppo selvaggio e imbizzarrito è il cavallo sociale per essere dominato.
D’altra parte, come può il cittadino ritenere plausibili schiere di dichiarazioni che si susseguono con cadenza annuale quando ciò che esse affermano viene negato dai fatti? Come credere alla dichiarazione ricorrente che i paesi raggiungeranno la neutralità carbonica al più tardi nel 2050 quando le emissioni non decrescono al ritmo richiesto? Come credere al dichiarato sforzo di abbandonare i combustibili fossili, quando essi continuano a rappresentare il cuore pulsante delle economie del G7? Come credere all’uscita dal carbone, quando non si dice né il quando né il come?
Questa raffinatezza linguistica coniugata ad astenia operativa caratterizza anche il vertice di Sapporo e la dichiarazione emanata dai ministri del clima, dell’ambiente e dell’energia. Uno dei suoi punti chiave è certamente l’articolo 44 che riconosce, e ciò è positivo, l’esistenza di un gap sostanziale tra emissioni e traiettorie necessarie per l’obiettivo net zero, e invita i diversi attori a impegnarsi per chiuderlo. È altrettanto positivo che all’interno di una dichiarazione la quale, come da tradizione, rifugge il numero – retorica e numeri sono nemici – si riconosca la necessità di ridurre le emissioni del 43% e del 60%, rispettivamente nel 2030 e nel 2035, rispetto al livello del 2019. En passant, si notino i 17 punti percentuali – un vero e proprio abisso – che dovrebbe essere colmato in soli 5 anni. Analoghi, nello spirito e nella tonalità, sono i successivi richiami a rendere i flussi finanziari e le azioni di mitigazione coerenti con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi, e l’invito verso tutti i paesi a raggiungere il picco delle proprie emissioni entro il 2025. Interessante, in particolare per il nostro paese, l’apertura ai biocarburanti quale strumento per la decarbonizzazione del settore dei trasporti, nel contesto, comunque, della riaffermazione del target del 100% di veicoli elettrici nella vendita di nuove auto nel 2035. Occorrerà capire se la posizione del G7 influenzerà l’Unione Europea, inducendola ad aprire ai biocarburanti in aggiunta ai già accettati e-fuels. Circa i combustibili fossili, il G7 riafferma l’urgenza di accelerarne l’abbandono, al più tardi entro il 2050. Specularmente, il G7 dichiara di impegnarsi a espandere l’energia rinnovabile. In tale contesto, va menzionato, come elemento assai positivo, il riferimento al dato: 150 GW di eolico e 1TW di solare entro il 2030. Entro certi limiti si avverte, all’interno della dichiarazione, una tensione verso un più solido contenuto scientifico: di qui i rimandi continui alla IEA e a IRENA, citate rispettivamente 10 e 4 volte. Lo scorso anno le due istituzioni erano state citate 7 e 2 volte e nel 2021 nemmeno una volta.
È come se con il passare degli anni si vada creando un ponte, certamente positivo, tra mondo della politica e istituzioni scientifiche. Gli scenari non sono più un affare per specialisti ma diventano common knowledge, linguaggio diffuso all’interno della società civile, e dunque anche tra la classe politica. Quanto poi gli scenari e le raccomandazioni delle varie agenzie e think tank siano metabolizzati e compresi nella loro impellenza e nel loro radicalismo, non è dato sapere. Usiamo qui la parola “radicalismo” non in senso spregiativo ma tecnico, e ci chiediamo se i firmatari della dichiarazione di Sapporo siano consapevoli della rivoluzione implicita nello scenario net zero delineato dalla IEA nel fatidico 18 maggio del 2021. In quel giorno, la IEA ha proposto al mondo intero una delle possibili traiettorie per raggiungere emissioni nette zero entro il 2050, evidenziando le implicazioni dirompenti insite in quell’obiettivo. Si tratta di una vera e propria rivoluzione del sistema economico ed energetico da compiere in tre decenni, senza poter contare sul riferimento di esperienze pregresse. Tutto qui avviene per la prima volta. E tutto deve essere realizzato subito.
Ecco, l’impressione è che oggi quella stessa classe politica che ha sposato quei target si trovi stretta tra l’intrinseca ed estrema difficoltà della loro attuazione e, dall’altra parte, l’eterna esigenza di fornire ai cittadini, in modo continuo, energia a buon mercato. Da una parte, dunque, la soluzione della crisi climatica, dall’altra la sicurezza energetica, dualismo deflagrato come non mai nei paesi del G7 a seguito della crisi ucraina. È come se una nemesi storica si fosse abbattuta su di essi, che per anni avevano criticato Cina ed India per il ricorso eccessivo al carbone, portandoli ad acquisire e comprendere attraverso il vissuto diretto – questo Maestro impareggiabile - il punto di vista di un paese che è a corto di energia e deve fornirne con continuità ai propri cittadini. Ed ecco che la nemesi rovescia le priorità: la sicurezza energetica torna salda al primo posto e non ci sono più taboo, per usare l’espressione del principale alfiere della decarbonizzazione uber alles, Franz Timmermans. Ecco che la verde Germania, promotrice negli anni di ingenti investimenti a favore delle rinnovabili, intensifica l’uso del carbone. Analoga opzione scelta dal Giappone che, con uno sforzo tecnologico nuovo, tenta di contenere l’elevata intensità carbonica del coal salvando capra e cavoli.
Queste tensioni confluiscono tutte nella Dichiarazione del G7 di Sapporo che, come già accaduto nel passato, rappresenta un sontuoso esercizio di equilibrismo, documentato in primis da un linguaggio cauto e qualitativo, un vero e proprio incedere delicato su un tappeto di vetri, facendo grande attenzione a non ferirsi i piedi. E i piedi, in effetti, non riportano nemmeno una ferita perché il G7 non dice né più né meno di quel che potrebbe dire: occorre porre fine ai nuovi progetti di generazione elettrica a carbone, ma non si menziona alcuna scadenza temporale quanto, piuttosto, un generico ed evergreen “as soon as possible”. Analogamente, sul gas naturale il G7 compie un vero e proprio, funambolico, salto carpiato linguistico, badando bene a tenersi stretta ancora per anni questa preziosa fonte energetica, limitandone al contempo - a beneficio del pensiero green – l’importanza. La frase usata dal G7 - un vero e proprio oggetto barocco che all’istante catapulta il lettore in una specie di Concilio di Nicea della transizione energetica - è così ingegnosamente arzigogolata che vale la pena riportarla: “… recognizing the primary need to accelerate the clean energy transition through energy savings and gas demand reduction, investment in the gas sector can be appropriate to help address potential market shortfalls provoked by the crisis, subject to clearly defined national circumstances, and if implemented in a manner consistent with our climate objectives and without creating lock-in effects, for example by ensuring that projects are integrated into national strategies for the development of low-carbon and renewable hydrogen”. Chi fosse arrivato, in apnea, alla fine della lettura non può non notare lo sforzo immane di interpolare punti troppo distanti: la domanda di gas deve essere ridotta, però nello stesso tempo sono ammissibili progetti nel settore del gas purché siano soggetti a specifiche circostanze nazionali, coerenti con gli obiettivi climatici, in grado di evitare effetti lock-in, e integrati nelle strategie nazionali low carbon. Questa frase è come una regressione ai minimi quadrati che cerca di interpolare punti distantissimi, un gruppo dei quali collocato nel quadrante “gas sì”, un altro in quello “gas no”. Nella duttilità magnifica dell’umano linguaggio l’interpolazione riesce, ma è ovvio che la correlazione – ovvero l’utilità operativa – sia molto bassa. Facciamo questi commenti, forse peccando di eccesso di ironia, non per criticare i leader che si sono riuniti a Sapporo quanto per illuminare la straordinaria complessità dell’impresa che la classe politica odierna è chiamata a compiere. Una rivoluzione industriale ed energetica, letteralmente copernicana, da realizzare in una manciata di anni, che collochi il pianeta sull’ardua traiettoria della neutralità climatica. È da escludere che il problema risieda nella debolezza della corrente classe politica. L’asticella è collocata così in alto che anche il leader più capace, in possesso di pieni poteri, avrebbe enormi problemi.
Se anche la dichiarazione di Sapporo fosse stata improntata a una maggiore nettezza - a posizioni più inclini all’accelerazione della transizione - in che misura le parole si sarebbero tradotte in realtà? Che potere hanno realmente i leader di trasformare una società e la sua economia? Molto basso, riteniamo, perché multiforme è la società e straordinariamente complessa la sua trasformazione. Più delle leve azionate dai policy maker contano le forze dell’economia e della tecnologia, e le idee che ad esse danno forma e le sospingono. Non troviamo parole migliori per esprimere questo concetto di quelle espresse - e con esse chiudiamo - dallo storico Piero Melograni in un pamphlet di parecchi anni fa, intitolato “Saggio sui potenti”: “La realtà del potere è diversa dalle apparenze. Un capo conosce molto poco il mondo che lo circonda, e molto poco riesce a trasformarlo. Quanto più grandi sono le responsabilità che un capo si assume, tanto più grandi sono gli ostacoli che egli incontra nel conoscere e nell’agire. Il potere risiede fuori dai palazzi dei capi, nelle grandi forze spirituali e materiali che si agitano nelle società. Ciò che accade all’interno di quei palazzi è spesso importante e a volte decisivo: ma soltanto a volte, in brevi momenti di crisi”.
Nota: le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.