Nel novembre 2021, alla COP26 di Glasgow, l’Unione Europa si indignava di fronte alla proposta di Cina e India di modificare il testo finale, sostituendo il “phase out” del carbone con un più morbido “phase down”. Frans Timmermans, parlando subito dopo il ministro indiano, sottolineava come l’Unione Europea fosse pronta a spingersi ben oltre per porre fine all’uso del carbone e affermava “We know that coal has no future”, accompagnato da applausi scroscianti. Nei mesi successivi, teneva banco la discussione sulla tassonomia europea: la decisione di includere il gas naturale nell’elenco delle tecnologie a supporto della transizione energetica sollevava più di una critica, essendo considerato retaggio ormai superfluo dell’era fossile.
A distanza di meno di un anno, i dati Eurostat ci dicono che, nel 2021, il consumo di carbone nell’Unione Europea è aumentato del 12% rispetto al 2020. Nella generazione elettrica, questa crescita ha raggiunto il 20%, interrompendo una tendenza in diminuzione dal 2014. Secondo l’IEA nel primo semestre del 2022 la domanda di carbone in Europa ha continuato ad aumentare, registrando un +10% (+16% nella generazione elettrica) e con buona probabilità il trend proseguirà nella seconda metà dell’anno. Diversi Stati membri (Germania, Francia, Olanda, Spagna, Italia, Grecia, Repubblica Ceca, Ungheria e Austria) stanno estendendo il funzionamento - o rimettendo in funzione - impianti a carbone destinati alla pensione. Lo stesso Timmermans ha dichiarato ai microfoni della BBC "There are no taboos in this situation". A quale situation fa riferimento? Cosa ha generato questa inversione a U della strategia energetica europea? In primis, la necessità di soddisfare la ripresa dei consumi energetici post-pandemia (per l’elettricità +4%) trainati dalla ripartenza dell’economia. Le condizioni climatiche non hanno aiutato: un inverno freddo, seguito da un’estate torrida, hanno alzato la domanda di energia per riscaldamento e raffrescamento. Contemporaneamente, il mercato del gas naturale, già in tensione per i motivi appena citati, è stato travolto dalla crisi Ucraina: il prezzo sul mercato europeo è salito alle stelle, rendendo addirittura conveniente lo switch “gas to coal”. Questo è accaduto nonostante anche il prezzo del carbone fosse in rialzo (l’offerta globale è aumentata meno della domanda, sia per motivi congiunturali che per un calo strutturale degli investimenti in questo settore) e ulteriormente gravato dai permessi di emissione, che si mantengono tuttora su livelli elevati.
Il carbone, la fonte “brutta e cattiva”, che emette tre volte la CO2 del gas naturale, che sembrava essere rimasta appannaggio dei paesi in via di sviluppo, torna prepotentemente nel mix della virtuosa Europa (vedi grafico). Dopo anni in cui le fonti rinnovabili hanno faticato per guadagnarsi ogni singolo punto percentuale di mix energetico, ecco che si fa bruscamente retromarcia a favore della fonte fossile più inquinante di tutte.
Variazione consumi globali di carbone (Mt)
Fonte: International Energy Agency (IEA)
Insomma, un risveglio amaro dal sogno del Green Deal? L’Europa deve rinunciare a diventare “il primo continente decarbornizzato del mondo”? A parole, la transizione energetica va avanti. Ma al momento, nei fatti, sembra esserci una sola certezza: senza combustibili fossili le case non si scaldano, le luci non si accendono e l’economia non cresce, anzi, rischia la recessione. La lotta ai cambiamenti climatici, almeno per il momento, è passata nella seconda pagina dell’agenda europea di fronte al rischio di non poter garantire ai propri cittadini luce, gas e, in caso di un crollo del sistema industriale, anche beni di prima necessità.
La commissione e i leader dei diversi stati membri assicurano che si tratta solo di soluzioni temporanee, necessarie ad affrontare l’emergenza e che saranno abbandonate il prima possibile. Ma chi può dire quando usciremo da questa “emergenza”? Ammesso e non concesso che questa sia solo una battuta di arresto, vista la lentezza esasperante con cui già in precedenza procedeva la trasformazione del sistema energetico, sicuramente non ci voleva.
E nel frattempo, durante questa “pausa”, quanto carbonio in più avremo immesso nell’atmosfera? Quanti fondi saranno stati sottratti alla transizione?
In base ai dati analizzati da Ember Climate, i governi europei spenderanno almeno 50 miliardi di euro per ampliare o costruire nuove infrastrutture fossili, che si vanno ad aggiungere ai circa 280 miliardi di euro già stanziati tra settembre 2021 e luglio 2022 per proteggere i consumatori dai rincari dell’energia.
Per concludere, l’insicurezza energetica rimane il principale nemico del Green Deal. Questa crisi dovrebbe far riflette l’Europa sulla reale fattibilità degli obiettivi che si è auto-imposta al 2050: per raggiungerli, abbiamo dato per scontato la continuità delle forniture di gas russo. Al momento, i numeri ci dicono che, in caso di tempesta, il mercato torna a rivolgersi rapidamente ai combustibili fossili (gas di altra provenienza, carbone, prodotti petroliferi), considerati “un porto sicuro”, mentre le rinnovabili sembrano un vezzo che forse ci possiamo permettere solo quando splende il sole e l’economia naviga in acque tranquille.
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