I mercati petroliferi stanno attraversando un periodo piuttosto turbolento, in larga parte dovuto all’acuirsi del conflitto russo-ucraino, il quale sembra lontano da una soluzione diplomatica. I prezzi del petrolio viaggiano da diverse settimane sopra quota 110 dollari/barile (con punte superiori ai 120) esibendo oscillazioni molto ampie da un giorno all’altro, mentre i prodotti raffinati ogni giorno infrangono un nuovo record, soprattutto se espressi in euro/litro vista la debolezza dell’euro nei confronti del dollaro.

Del resto, le incertezze sono molte sia dal lato della domanda, considerato il rallentamento dell’economia cinese e, più in generale, di quella mondiale come si legge nell’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, sia da quello di un'offerta che l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), nel suo ultimo rapporto, ha nuovamente rivisto al ribasso di quasi 1 milione barili/giorno (da 99,1 a 98,1 milioni barili/giorno). E non è solo per il venire meno di buona parte della produzione russa, ma anche per le difficoltà operative che gli altri Paesi “Opec+” stanno incontrando nell’aumentare la loro. La prova è nel fatto che stentano anche a rispettare l’impegno di aumentare mensilmente la produzione di 400.000 barili/giorno (poi saliti a 432.000), al punto di essere sotto la quota stabilita di 2,7 milioni. Se poi aggiungiamo il rallentamento della produzione degli Stati Uniti e scorte ai minimi storici, prezzi così alti non devono sorprendere. Anzi.

La situazione si potrebbe ulteriormente complicare visto “l’accordo di principio” raggiunto ieri dai Capi di Stato e di Governo europei  per un progressivo embargo al petrolio russo – e in prospettiva anche al gas. Un accordo che ha mostrato la fragilità dell’Europa di fronte a quanto sta accadendo e come sull’energia si sia rivelata molto più divisa di quanto voglia far apparire.

Temi come la sicurezza energetica e la diversificazione delle fonti, colpevolmente trascurati in questi ultimi anni, si sono riproposti in tutta la loro evidenza e solo per le difficoltà attuali sono di nuovo entrati a far parte dell’agenda europea. Ci si è evidentemente resi conto che la narrazione green, da sola, non basta a risolvere i problemi e che per soddisfare la domanda di energia di imprese e consumatori non si potrà fare a meno delle fonti fossili ancora per diversi anni. Lo dicono i numeri.

Certo, bisognerà renderle sempre più carbon neutral. Le tecnologie ci sono e vanno sviluppate, non vietate come invece si è fatto sinora. Ciò vale in particolare per la raffinazione che rappresenta un presidio per la sicurezza energetica di ogni Paese.

L’Italia, da questo punto di vista, è forse messa meglio di altri proprio perché può contare su un’industria nazionale della raffinazione flessibile, in grado di lavorare diversi greggi provenienti da più aree geografiche (nel 2021 il greggio è arrivato da 22 differenti Paesi, rispetto ai 10-12 degli anni delle crisi petrolifere) e quindi di fare fronte con minori problemi a eventuali riduzioni di offerta se non embarghi totali, garantendo in ogni caso la fornitura di prodotti finiti. Di contro, senza un sistema di raffinazione, l’approvvigionamento di prodotti diventerebbe critico, soprattutto per i Paesi europei che hanno specifiche di qualità molto più stringenti rispetto a quelle che esistono in altre aree del mondo. Perdendo il settore della raffinazione, avremmo la necessità di importare prodotti da Paesi in cui la domanda interna è in forte crescita e per di più a prezzi più alti. Qualcosa del genere sta già avvenendo con il jet fuel visto che l’Europa complessivamente - e l’Italia in particolare - ne è carente e lo importa da altre aree geografiche.

Lo scorso anno le lavorazioni delle raffinerie nazionali sono state pari a circa 65 milioni/tonnellate (rispetto ad una capacità di 87 milioni/tonnellate) e per quasi il 97% hanno riguardato prodotti per la mobilità. Il tasso di utilizzo degli impianti è stato intorno al 70%, a fronte di margini largamente negativi. Un leggero recupero lo si è avuto nel primo trimestre di quest’anno (vedi grafico) - anche in termini di margini per prezzi dei prodotti raffinati cresciuti molto più di quelli dei greggi - ma non basta ad uscire da una crisi strutturale che richiederebbe maggiore attenzione da parte delle Istituzioni. La stessa sfida della decarbonizzazione non potrà essere vinta senza il contributo di un settore che copre oltre il 92% della domanda di mobilità. L’alternativa è perdere tutto, ma in questo caso chi se ne assumerà mai la responsabilità?

Fonte: Elaborazioni unem