La diffusione su scala mondiale del COVID-19 ha coinciso con un clima “poco disteso” sul mercato petrolifero internazionale, in ragione della guerra di prezzo che ha visto contrapporsi l’Arabia Saudita, il più importante produttore all’interno dell’OPEC, e la Russia, leader dei paesi esterni all’Organizzazione che hanno aderito all’Alleanza OPEC Plus istituita nel 2016. Di per sé, qualsiasi controversia relativa alla gestione dell’offerta petrolifera esercita una pressione al ribasso sulle quotazioni, ma in questo particolare momento storico le contrapposizioni in seno all'OPEC plus si sono sommate ad un crollo senza precedenti della domanda globale di petrolio, effetto tangibile della pandemia. Merita, tuttavia, rilevare come i prezzi fossero già sotto pressione anche prima: offerta abbondante e rallentamento dell’economia globale già nel 2018, complice il forte slowdown della crescita cinese, avevano spinto i prezzi del barile su valori ben più bassi dei massimi raggiunti dopo la crisi del 2015. Prima di marzo 2020 – quindi prima del pieno dispiegarsi della pandemia e prima della controversia tra Riad e Mosca - 50 doll/bbl erano considerati il new normal per il mercato petrolifero. Oggi, la tenuta di un simile floor si sta sgretolando in ragione di una saturazione della capacità di stoccaggio esistente e dell’impossibilità di quella nuova di tenere il passo della produzione.
A risentire in modo evidente di questo contesto sarà l'industria petrolifera degli Stati Uniti, già penalizzata da costi di esplorazione e produzione mediamente elevati - specie in alcuni bacini – e maggiormente elastica ai segnali di prezzo rispetto ad altre tipologie di produzioni.
Chiaramente, più sarà esteso il periodo di bassa domanda, maggiori saranno le ricadute negative per un settore che tipicamente progetta gli investimenti lungo un orizzonte di medio e lungo periodo. Cosa potrebbe succedere in tale evenienza? Non solo non verranno perforati nuovi pozzi ma si assisterà anche alla chiusura di quelli meno produttivi; non verranno solo annullati i progetti futuri ma verranno altresì abbandonati quelli in essere, specie i meno redditizi; il settore conoscerà non solo consolidamenti ma anche numerosi fallimenti; la disoccupazione che ne deriverà non sarà solo temporanea e sarà necessario riorganizzare e ripensare completamente le attività Oil&Gas.
Ciò premesso, e indipendentemente da quanto durerà questa sfavorevole condizione, non tutto andrà perduto: gli Stati Uniti continueranno a contare su un’importante dotazione di risorse, su un sistema industriale caratterizzato da spirito di innovazione e libertà d’impresa, caratteristiche che hanno consentito agli States di raggiungere un ruolo di primo piano sul mercato petrolifero.
Negli ultimi due anni, infatti, gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori mondiali di greggio, grazie ad una crescita della produzione del 40% tra il 2016 e il 2019, passando da 8,8 mil bbl/g a circa 12,2 mil bbl/g. Tuttavia, la capacità dell'industria americana di competere con paesi come l'Arabia Saudita o la Russia dipenderà dall’individuazione di modelli di business che consentano di gestire la grande, ma al tempo stesso complessa, dotazione di risorse non convenzionali di cui il paese dispone.
Sino ad oggi, lo sviluppo degli asset unconventional è stato possibile, in primo luogo, grazie ai prezzi elevati del petrolio che si sono osservati dopo la cosiddetta "primavera araba" (2010); successivamente, grazie all’istituzione dell’OPEC Plus nel 2016 e al conseguente avvio di tagli alla produzione che hanno fornito supporto ai prezzi, con buone probabilità più elevati di quello che il libero gioco di domanda e offerta avrebbe determinato. Per anni si è infatti dibattuto il tema del “sovvenzionamento” di cui beneficia lo shale oil, posizione associata principalmente all’Arabia Saudita.
Cosa succederà all'industria petrolifera degli Stati Uniti? Soprattutto a quella parte del settore responsabile della rapida crescita dei volumi di shale oil?
I dati sulla produzione aggregata nascondono la forte eterogeneità che caratterizza i produttori di petrolio dell’area. Le differenze vanno dalle opportunità perseguite – sfruttamento di risorse onshore oppure offshore, non convenzionali (shale) o convenzionali -, al modo in cui le società vengono finanziate, alla struttura e alla proprietà aziendale, sia essa pubblica o privata.
E molti altri fattori entrano in gioco. L'eterogeneità si manifesta anche nei costi. Ogni produttore deve affrontare spese in conto capitale diverse, inclusi i costi per garantirsi l'accesso a terreni e risorse di proprietà di privati, aspetto quest’ultimo che caratterizza la grande maggioranza dei casi negli Stati Uniti per le attività onshore. Allo stesso modo, il profilo dei costi operativi non è uniforme. Anche le aziende che operano nello stesso play produttivo possono avere Capex e Opex completamente diversi gli uni dagli altri.
Con le società quotate che hanno annunciato tagli al budget e alla forza lavoro, l'ampiezza e la profondità della riorganizzazione del settore stanno diventando evidenti. Le principali major internazionali stanno riducendo la loro scala dimensionale, i loro progetti produttivi capital intensive, così come l’intera catena del valore. Le compagnie indipendenti di grandi e medie dimensioni, più attive nelle operazioni shale onshore, stanno concentrando investimenti e personale sugli asset più produttivi. L'industria dei servizi petroliferi, che ricopre un ruolo vitale nel panorama economico statunitense, sta praticando tagli che non si osservavano dalla metà degli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio registrò un ripiegamento più drastico di quello attuale.
Prevedere quali compagnie, quali segmenti della dinamica industria statunitense, o persino quali bacini e progetti sopravvivranno è più che mai difficile. Quando la tempesta sarà passata si stima un calo complessivo della produzione di petrolio e gas degli Stati Uniti che va da circa un terzo a poco meno della metà del livello corrente. Nonostante sia ancora presto per trarre delle conclusioni, in questo, come in qualsiasi altro settore, e indipendentemente da considerazioni di diversa natura, le società con i bilanci più solidi, il debito più basso, le maggiori riserve di liquidità avranno più possibilità di sopravvivere e riposizionarsi in un contesto industriale profondamente cambiato.
Più a lungo la domanda resterà debole, più i suoi effetti saranno pronunciati e, forse, permanenti. Al netto dell'attuale situazione, un problema che caratterizza l'industria petrolifera globale è la sua capacità di attrarre risorse finanziarie dall’esterno. Ciò è vero indipendentemente dal fatto che l'opportunità di investimento sia rappresentata da un progetto internazionale su larga scala o da uno shale “pure play” sul suolo statunitense, ed è principalmente dovuto all'erosione dei prezzi delle materie prime osservata nel 2018. Le caratteristiche dei pozzi e dei giacimenti di tipo shale hanno creato particolari difficoltà finanziarie per le aziende che li hanno sviluppati. Il rapido tasso di declino susseguente alla produzione iniziale comporta la necessità di perforare in modo costante per mantenere un certo volume di produzione. Inoltre, l'alto grado di variabilità in termini di rendimento tra i diversi pozzi e campi influisce sulla capacità dei produttori statunitensi di costituire riserve di liquidità, rendendoli eccessivamente dipendenti dal capitale esterno.
Sicuramente, una volta che le acque si saranno calmate e quando si assisterà ad una ripresa economica post-pandemia, l'apprezzamento delle materie prime energetiche e la profonda ristrutturazione che avrà interessato il settore attireranno nuovamente i mercati dei capitali verso un’industria considerata intrinsecamente preziosa. Il problema principale riguarda i tempi e, di conseguenza, come i tempi incideranno sulla capacità di resilienza delle attività Oil&Gas.
Con la ripartenza dell’economia mondiale, la domanda aumenterà di nuovo e gli stoccaggi si svuoteranno. A quel punto saranno le produzioni più economiche e più flessibili a rientrare per prime sul mercato. Certamente, Arabia Saudita e Russia saranno in pole position, ma è improbabile che avvino una guerra sulle quote di mercato, mantenendo i prezzi ai livelli bassi di oggi. Infatti, nonostante nei due paesi la produzione di petrolio sia molto più economica che in qualsiasi altra parte del mondo, le entrate ad essa collegate sono vitali per i loro bilanci di Stato e per gli obiettivi sociali. Bassi prezzi potrebbero rendere sempre più difficile il raggiungimento di tali obiettivi. Inoltre, come si sottolinea in questo articolo, è improbabile che la domanda di petrolio scompaia come alcuni sostengono. Ad un certo punto, le quotazioni “rimbalzeranno”. Il ritmo e l'estensione della ripresa per il settore del petrolio e del gas degli Stati Uniti (ma anche altrove) dipenderanno dal modo in cui i governi di tutto il mondo decideranno di riaprire e di far ripartire le loro economie nel post-quarantena. La severità delle condizioni commerciali favorirà nuovi approcci e quasi certamente, nuovi accordi. Ripensando allo stato delle cose prima della pandemia, osserviamo come l'erosione dei prezzi del petrolio alla fine del 2018 avesse favorito tagli dei budget e un certo consolidamento. Alla fine del 2019, alcuni attenti osservatori temevano che la mancanza di investimenti potesse creare le pre-condizioni per un aumento dei prezzi del petrolio dietro l’assunto di un miglioramento dell'economia globale nel periodo 2020-2021. Un rimbalzo dell'attività economica post lockdown e un'impennata della spesa dei consumatori potrebbero innescare nuovamente tali preoccupazioni.
Michelle Michot Foss è fellow in Energy & Minerals presso il Center for Energy Studies, Rice University’s Baker Institute for Public Policy
Anne Mikulska è nonresident fellow presso il Center for Energy Studies presso la Rice University’s Baker Institute for Public Policy e senior fellow presso il Kleinman Center for Energy Policy, University of Pennsylvania.
La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di RiEnergia. La versione inglese di questo articolo è disponibile qui.