Un ingente costo per le casse dello Stato, un ritorno indietro di quasi 30 anni e la reintroduzione di quei vincoli che sono all’origine del gap infrastrutturale oggi esistente. Sono alcuni dei possibili effetti della Proposta di Legge Daga su un comparto, quello del servizio idrico integrato, che negli ultimi anni si è messo in movimento secondo una logica industriale, aumentando gli investimenti e migliorando il servizio offerto.

Se la riforma andasse in porto, lo Stato - e quindi i cittadini - si troverebbero a pagare un elevato costo solo per cambiare forma giuridica alle stesse aziende che, già oggi, gestiscono il servizio idrico e sono a totale o parziale controllo pubblico: è bene ricordare, infatti, che il 97% degli italiani è servito da soggetti a matrice pubblica, l’1% da società miste a maggioranza privata e solo il 2% da società interamente private. Quale sarebbe il costo di questa battaglia ideologica? Almeno 15 miliardi di euro una tantum, oltre a una spesa annuale di altri 5 miliardi.

Il costo una tantum sarebbe l’inevitabile conseguenza delle procedure per la trasformazione di tutte le gestioni esistenti in aziende speciali o altri enti di diritto pubblico; ciò comporterebbe la cessazione anticipata delle concessioni legittimamente in essere e la perdita di valore economico delle aziende esistenti, con effetti pesanti sulle casse dei Comuni e delle istituzioni locali che ne detengono la proprietà totale o parziale. Il costo per riacquistare le quote di partecipazione cedute negli anni e per ripagare lo stock di debito contratto con banche e cittadini è pari a circa 15 miliardi di euro una tantum.

Ma non è tutto: la Proposta di Legge prevede che il costo del servizio idrico sia coperto con finanziamento a carico della fiscalità (generale e specifica) e, solo parzialmente, tramite la tariffa: lo Stato dovrà quindi inserire in bilancio circa 5 miliardi all’anno di spesa, da coprire con tassazione o con debito pubblico. Questo perché, una volta smontato un sistema industriale che negli ultimi anni ha consentito un aumento degli investimenti da 34,4 a 41,3 euro per abitante l’anno, il servizio idrico integrato - prendere l'acqua alla sorgente, purificarla, farla passare nei tubi e portarla ai rubinetti di casa, per poi raccoglierla nelle fognature e depurarla - dovrà essere comunque sostenuto. Al momento, grazie all’applicazione del principio europeo della tariffa a copertura dei costi di gestione (full cost recovery), il 76,6% degli investimenti viene finanziato da tariffa e il restante 23,4% da contributi e finanziamenti pubblici. Se la PdL Daga andasse in porto, in mancanza delle risorse provenienti dalla tariffa si dovrà far leva sulla fiscalità generale, che siano nuove tasse o l’ampliamento di quelle esistenti inserendo lo “scopo”: in sostanza quello che i cittadini pagano oggi in bolletta, lo pagheranno comunque sotto forma di tasse. Con gravi ripercussioni sulla qualità del servizio erogato e con una serie di implicazioni di carattere ambientale.

Dal primo punto di vista, affidarsi alla fiscalità generale vuol dire dipendere dall’alternanza di finanziamenti legati alle stagionalità politiche anziché alle logiche progettuali e industriali: oggi ancora paghiamo gli effetti di decenni di investimenti a singhiozzo. Ammodernare un acquedotto o costruire un impianto di depurazione, sono operazioni che si possono realizzare solo in un’ottica pluriennale, che difficilmente coincide con il mandato di un primo cittadino. Siamo solo a metà di un lungo percorso che punta a recuperare il gap infrastrutturale accumulato negli anni passati, per cui si può pensare di introdurre ulteriori finanziamenti pubblici per il settore, ma come supporto e non in sostituzione dei finanziamenti derivanti dalle tariffe. Le esigenze di carattere sociale vanno sempre commisurate con quelle di carattere ambientale: di conseguenza i nuovi eventuali fondi messi a disposizione dovrebbero essere destinati sostenere i soggetti più disagiati, e non ad abbattere le tariffe rischiando di favorire lo spreco di acqua.

Dall’altro lato, a fronte di un investimento medio realizzato dai gestori industriali superiore ai 40 euro per abitante l’anno, i Comuni a gestione diretta (le cosiddette gestioni “in economia” che la PdL vorrebbe estendere a tutto il Paese) hanno investito mediamente 4 euro; non è un caso che l’80% degli agglomerati oggetto di condanna europea per violazione della direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane, sia gestito “in economia”.

Come Utilitalia, da tempo evidenziamo l'esigenza ormai indifferibile di definire, in analogia alla Strategia Energetica Nazionale (SEN), una Strategia Idrica Nazionale (SIN), assumendo un orizzonte di investimenti almeno decennale. A fronte di fenomeni climatici sempre più estremi serve un approccio olistico che regoli gli investimenti per il settore civile, agricolo e industriale – all’interno dei quali si consuma rispettivamente il 20%, il 51% e il 21% della risorsa idrica – per garantire la sostenibilità dell’uso dell’acqua.

In definitiva, sarebbe importante destinare le risorse finanziarie disponibili a questi interventi, soprattutto nel Sud e nelle isole, piuttosto che impegnare fondi pubblici per una riorganizzazione del settore che rischia addirittura di allontanarci dal conseguimento di questi obiettivi.