L’importanza dell’infinito numero di Summit internazionali su ambiente e clima che si succedono dal primo (nel lontano 1992 Rio de Janeiro), di cui quattro solo quest’anno: quello organizzato da Biden in aprile, il G7 di giugno, il G20 di ottobre, la COP 26 di novembre – poggia su due principali condizioni. Da un lato, la capacità di fissare obiettivi, nei contenuti e nei tempi, realisticamente conseguibili. Dall’altro, la credibilità dei protagonisti nel dar seguito agli impegni assunti. Condizioni in entrambi i casi che non possono dirsi esaudite.
Che la questione climatica sia un problema maledettamente complesso dovrebbe essere chiaro ai più. Che sia un problema evidentemente globale dovrebbe essere lampante per il più neofita dei governanti. Che non possa risolversi semplicemente ex lege dovrebbe essere almeno materia di discussione. Eppure, si affastellano le anticipazioni di possibili, prossime messe al bando delle autovetture endotermiche, che per muoversi hanno bisogno di carburanti più o meno derivati da fonti fossili.
In vista dell'incontro del G7, l'attenzione degli osservatori si è concentrata in particolare su ciò che il vertice dei leader mondiali avrebbe deciso sul carbone, il principale nemico delle politiche climatiche sia a livello locale che globale. Il Giappone annuncerà un cambio di politica sulle sue centrali? Il comunicato finale stabilirà una data di scadenza per la generazione elettrica da carbone? Si troverà un accordo per porre fine ai finanziamenti che ancora sostengono l’industria carbonifera? Le diverse domande che precedevano il meeting sono rimaste in parte senza risposta e in parte vi sono stati esiti contrastanti.