Con l’accordo, se così si può definire, tra UE e USA, siglato in Scozia lo scorso 28 aprile, si aggiunge un altro pezzo, l’ennesimo, a puzzle complicatissimo voluto dal Presidente Trump. Benché consapevoli delle difficoltà di fare un bilancio esaustivo degli impatti che queste scelte di politica commerciale avranno per gli attori coinvolti, è possibile però delinearne i primi contorni. Per RiEnergia, ci ha pensato Alessandro Fontana, Direttore Centro Studi Confindustria, in un’intervista puntuale che ci da l’istantanea di quello che è e quello che potrebbe essere.

In 5 mesi 25 interventi tra annunci, rinvii ed entrate in vigore, e solo da pochissimi giorni si è capito, anche se non ancora in maniera definita, cosa succederà dal 01° agosto. Non si può escludere, inoltre, la possibilità di un repentino e ulteriore cambiamento. Scelta strategica quella di Trump di generare caos, o dietro c’è una chiara e ben delineata scelta politica?

La scelta di Trump è stata ben precisa e volta a ottenere il massimo dai suoi partner commerciali. E di fatto il Presidente dall’accordo ha ottenuto abbastanza, mentre a perderci è stata sicuramente l’Europa. L’imposizione di una tariffa al 15% è una misura impattante a cui si aggiunge anche la promessa per acquisti ulteriori di armi, gas ecc. Per l’UE la scelta è stata indotta, sebbene condivisa con le imprese, e considerata il male minore per evitare scontri con un partner storico.

Ogni scelta però, anche un rinvio o una marcia indietro, ha delle ripercussioni importanti. Chi vince e chi perde in questa guerra commerciale?

Nel breve periodo le conseguenze sono molto più negative per gli Stati Uniti rispetto all’Europa. Il paese a stelle e strisce è il più grande importatore al mondo e nel 2024 ha assorbito il 13% di tutte le importazioni mondiali. Un bene su tre consumato dagli americani è importato e nell’immediato difficilmente si assisterà a un cambiamento di abitudini, né tanto meno sarà possibile a stretto giro  produrre internamento quanto oggi si acquista dall’estero. Di conseguenza, questi prodotti continueranno  ad essere importati a un prezzo più alto, con non poche conseguenze sull’economia americana. Fino a qualche mese fa si parlava, infatti, di una possibile recessione, indotta dal rischio di inflazione. Questo è il timore dietro alla scelta della Federal Reserve di non toccare i tassi di interesse. Sempre nel breve periodo, l’Europa perderà quote di export che solo parzialmente potranno essere recuperate altrove.

Nel medio-lungo periodo, invece, la politica tariffaria di Trump farà più male a noi europei, mentre al contrario gli USA rafforzeranno molto la loro capacità produttiva interna. Sarà più conveniente per le imprese produrre negli Stati Uniti e molte aziende europee e di altri Paesi del mondo si stabiliranno negli USA. Questo è quello che più temiamo. Gli investimenti che sono stati promessi dalle varie imprese negli Stati Uniti sono molto elevati e molte nostre imprese avranno convenienza a stabilirsi lì, con un conseguente impatto negativo per l’economia del Vecchio Continente.

Guardando al nostro paese, è possibile fare un bilancio degli impatti di queste scelte di politica tariffaria degli USA e quali sono i rischi in caso dell’imposizione di nuovi dazi?

Per l’Italia, l’impatto di questa scelta tariffaria è ancora più significativo. Il mercato americano, infatti, è importante per la nostra economia e  negli ultimi anni ha trainato più che altrove l’export italiano. L’Italia è uno dei paesi in cui l’export è cresciuto di più, grazie anche alle vendite fatte verso gli USA. L’anno scorso abbiamo esportato 65 miliardi di beni. Se all’export diretto – ovvero quello delle imprese che esportano direttamente negli Stati Uniti –  ci sommiamo quello indiretto – ovvero quello che facciamo verso un paese terzo che poi esporta a sua volta verso gli Stati Uniti – arriviamo a circa 90 miliardi di euro. Come Confindustria, abbiamo stimato che con una tariffa del 15% su tutti i beni esportati verso gli Stati Uniti, al momento perderemmo qualcosa come 23 miliardi.  È vero che parte   verrà recuperato su altri mercati, ma la perdita rimane comunque notevole.

Dazi, energia e ambiente: esiste un fil rouge che li lega. Quale? 

La situazione attuale è questa: i dazi ci puniscono, sull’energia siamo messi peggio di altre aree e  nel frattempo vogliamo portare avanti le Direttive europee sull’ambiente senza vedere gli impatti economici; un mix che va a penalizzare l’attività delle imprese in Europa, in ambito industriale e non solo. Da qui nasce l’esigenza di mettere in atto una serie di azioni, innanzitutto a livello europeo, in primis volte a perseguire l’indipendenza energetica, che potrebbe essere raggiunta, ad esempio, con il nucleare. Poi sarebbe meglio gestire la transizione: c’è il rischio di  correre troppo e senza neanche essere autonomi dal punto di vista tecnologico. Ciò crea un’altra dipendenza dalle forniture. A tutto ciò si aggiungono i meccanismi legati all’ETS e al CBAM,  che complicano il fare impresa in Europa. Se vogliamo veramente essere competitivi a livello globale, forse bisogna trovare soluzioni che, pur tenendo conto dell’ambiente e della sostenibilità, vadano a favorire lo sviluppo industriale. Quello che noi chiediamo è che l’Europa rimetta al centro l’industria e, in generale le imprese e che lavori per far sì che queste possano creare sempre più valore. Questo si ottiene rimuovendo molti dei dazi interni: la cosa assurda è che ci lamentiamo di quelli americani, ma poi il mercato unico non è mai stato completato. Bisogna poi puntare alla ripresa della produttività dell’Europa considerato più un mercato per vendere, che un’area in cui si produce. Senza iniziative di questo genere rischiamo un calo della crescita, che già abbiamo sperimentato negli ultimi quindici anni rispetto a paesi come gli stessi Stati Uniti e la Cina. Dal 2008 al 2024 abbiamo perso 70 punti di PIL in termini di crescita.