Dopo l’incidente di Chernobyl, l’Italia ha abbandonato il nucleare, riformulando le proprie politiche energetiche senza contare su questa fonte. Altri paesi, però, in tutto il mondo, non solo hanno continuato a utilizzare il nucleare, ma stanno dando vita a nuovi sviluppi. Oggi a distanza di quasi 40 anni, si riapre il dibattito sull’opportunità o meno di puntare su questa fonte anche nel nostro paese. Per i sostenitori, sono tante le ragioni che spingono verso una rinascita del nucleare italiano, tra cui due appaiono come principali: la prima di natura ambientale, la seconda relativa alla necessità di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti. Ne abbiamo parlato con Stefano Monti Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare.

Perché in Italia ora è il tempo di ripartire con il nucleare? Può il settore nucleare italiano ricevere una nuova spinta grazie proprio all'importanza che gli obiettivi di transizione energetica hanno per le generazioni più giovani?

Sono molte le motivazioni che giustificano un ritorno al nucleare in Italia. A partire dalla sensibilità che le nuove generazioni hanno sulla questione del cambiamento climatico e sulle misure che possono essere messe in campo per fronteggiarlo.

A questo aspetto se ne aggiunge un altro, ovvero la percezione di insicurezza che la guerra in Ucraina prima e quella in Medio Oriente ora hanno innescato nei comuni cittadini, anche sul versante della disponibilità di energia a prezzi abbordabili. Ci si è resi conto che tanto in Europa, quanto in Italia, si è fragili dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti, vista la scarsità di risorse disponibili nel nostro sottosuolo. È noto a tutti lo sforzo fatto per sopperire all’ammanco di gas russo e le conseguenze molto severe in termini di rialzo dei prezzi dell’energia. Una situazione che, sebbene oggi sia migliore rispetto a un anno fa, ancora non è del tutto rientrata (i prezzi delle commodities energetiche rimangono ancora alti e pesano sui bilanci di famiglie e imprese).

Questi due elementi vanno affrontati con urgenza. L’Italia, dopo Chernobyl, da quando cioè il Paese ha deciso di abbandonare il nucleare, ha intrapreso con decisione la strada delle energie rinnovabili intermittenti (oltre all’idroelettrico sul quale contiamo da svariati decenni e che ci garantisce il 15% dell’elettricità), investendo decine di miliardi di euro. Tuttavia, nonostante i progressi fatti, ancora oggi queste fonti hanno permesso solo una minima decarbonizzazione e del solo settore elettrico (che rappresenta poco più del 20% dei consumi energetici finali), e non hanno aiutato, in un momento di grave crisi, di calmierare i prezzi. Ancora dipendiamo massimamente dai combustibili fossili.

Che fare quindi? Certamente, bisogna continuare a puntare sulle rinnovabili, ma solo questo non basta, in ragione del fatto che le FER hanno dei problemi intrinseci legati alla loro intermittenza, non programmabilità e ubicazione della produzione e conseguentemente dei costi di sistema, che non vanno assolutamente sottaciuti. Intermittenza: la produzione avviene solo quando soffia il vento o quando le giornate sono sufficientemente soleggiate. Non programmabilità, non è possibile programmare con continuità la produzione di elettricità da rinnovabili, pertanto quando queste ultime non sono disponibili bisogna ricorrere a fonti di backup come gas e carbone, che sono però inquinanti. Ubicazione della produzione che avviene in aree che non sempre coincidono con quelle di consumo. In Germania, per esempio, non potendo contare, per ragioni geografiche, sull’apporto del solare, la principale fonte rinnovabile è l’eolico. Tuttavia, la produzione eolica in questo paese è soprattutto al Nord, ma la maggior parte delle industrie, specie quelle pesanti energivore, si trova al sud.

La stessa cosa avviene in Italia: la produzione solare sta al Sud, ma il 75% del PIL è prodotto nel Nord del paese. Pertanto bisogna potenziare le infrastrutture di trasmissione dal punto di produzione al punto di consumo, cosa che ovviamente ha un costo. I costi di sistema, così come ampiamente dimostrato da esperti internazionali di economia dell’energia e agenzie di settore, aumentano più che proporzionalmente con la diffusione delle rinnovabili.

Serve quindi complementare le rinnovabili - la cui funzione per la decarbonizzazione del settore elettrico rimane comunque importante - con una fonte energetica primaria, che sia stabile, programmabile e sempre disponibile in grandi quantità come richiesto dalle industrie: questa fonte primaria è il nucleare. Quest’ultima, per la sua struttura dei prezzi, permette di programmare quanto costerà il kWh fra anni, perché il costo del nucleare dipende dall’impianto e non dal combustibile che rappresenta la parte variabile del costo dell’energia.

Le argomentazioni a favore del nucleare sono le medesime a supporto di un impiego del gas naturale, ad eccezione di un aspetto, ovviamente rilevante, ovvero la diversa impronta carbonica delle due fonti. Ci spiega perché?

In un’ottica di razionalità e ragionevolezza, bisogna constare come il gas sia sicuramente la fonte ponte in questa fase di transizione, almeno fino al 2030. Non possiamo immaginare che un cambiamento epocale che richiede decenni possa verificarsi nel giro di pochi anni. Tuttavia, il gas è una fonte che non rispetta i due criteri fondamentali esposti prima. Esso è, infatti, climalterante e non solo perché quando brucia emette CO2, ma perché durante la sua distribuzione ci sono rilevanti perdite di gas e la molecola di CH4 è 20-30 volte più climalterante dell’anidride carbonica. Inoltre, come abbiamo visto negli ultimi diciotto mesi a seguito di sconvolgimenti geopolitici, non garantisce quella sicurezza degli approvvigionamenti di cui abbiamo bisogno.

Pertanto il punto non è ora gas sì o gas no, ma piuttosto dove verso dove dobbiamo tendere: ovvero una piena decarbonizzazione e una drastica diminuzione della nostra dipendenza dai  indipendenza dai combustibili fossili. Questo si può ottenere solo con una giusta combinazione di nucleare e rinnovabili che dovrebbero essere visti in sinergia per risolvere i problemi energetici dell’Europa e dell’Italia, anziché in contrapposizione.

Parlando di tempi, secondo Lei, ammesso che si inizi domani seriamente a parlare di nucleare in Italia, quando potrebbe essere prodotto il primo kWh da atomo?

Per rispondere a questa domanda, che è molto importante, partiamo con il dire che non bisogna considerare solo l’Italia in quanto tale, visto che il nostro paese è ormai integrato, in termini di rete ecc, con il resto d’Europa. Dunque occorre ragionare quanto meno in un’ottica europea se non addirittura internazionale come i recenti eventi geopolitici hanno dimostrato.  Tra l’altro, il peso dell’Italia in termini di emissioni globali climalteranti è molto basso, così come l’Europa che complessivamente pesa per un 8%. Tuttavia, l’ambizione di puntare a economie decarbonizzate spinge l’UE a fungere da modello per il resto del mondo, soprattutto per i grandi emettitori come Cina, India e Stati Uniti.

In un quadro e prospettiva europei, la rinascita del nucleare è già avviata! Questa fonte ha già oggi un ruolo importante nel mix energetico continentale, visto che ci sono oltre 100 reattori attivi che garantiscono il 22% della produzione elettrica dell’UE (cifra che aumenta se consideriamo il blocco Europa nel suo complesso) e più del 40% dell’energia elettrica decarbonizzata. Ma in visione prospettica, il suo apporto è destinato a crescere, perché sono sempre di più i paesi che stanno considerando per la prima volta o riconsiderando, nell’ambito di politiche energetiche di espansione, l’opzione nucleare, per traguardare gli obiettivi di transizione energetica. La Polonia, che non ha mai beneficiato dell’energia nucleare, quest’anno ha deciso di avviare un programma nucleare molto aggressivo, sia per ridurre la sua dipendenza dalla Russia, sia per decarbonizzare un sistema ancora lontano dagli obiettivi imposti dalle istituzioni europee, proprio per il fatto che il paese è uno dei principali produttori e consumatori di carbone. Tra l’altro, insieme a Italia e Germania, vanta un primato negativo: quello di avere la quantità maggiore di grammi di CO2 per kWh prodotto.

Anche la Svezia, che come l’Italia dopo Chernobyl, aveva deciso di dismettere nel tempo il nucleare - anche se di fatto non ha mai proceduto in tal senso, estendendo invece la vita delle proprie centrali - ha cambiato drasticamente la propria policy energetica, prevedendo la costruzione di 10 nuovi impianti.

Parimenti, tutta l’Europa dell’est e, come ben noto, la Francia e la Finlandia contano massimamente sul nucleare e spingono per un suo ulteriore sviluppo. Unico paese in controtendenza è la Germania che ha deciso di dismettere tutti i suoi impianti nucleari, di cui gli ultimi 3 posti in decomissioning quest’anno. Una scelta che non sembra essersi rivelata vincente, perché l’ammanco del nucleare, unitamente al venir meno del gas russo, ha fatto lievitare i costi dell’energia, ritenuti dallo stesso ministro per l’energia tedesco troppo alti e fra le cause del rallentamento economico tedesco. Inoltre, e sembra paradossale, per sopperire alla sua domanda di elettricità, Berlino è stata costretta ad aumentare le importazioni di elettricità dalla Francia, di fatto sostituendo i propri reattori nucleari con quelli francesi, oltre a riaccendere le proprie centrali a lignite, in assoluto il fossile più inquinante.

Tutto questo per dire che il nucleare sta ripartendo alla grande in Europa: progetti per nuovi impianti sia attuali sia di nuova generazione, estensione della vita di quelli esistenti e quindi grandi opportunità per quel comparto che si muove attorno a questa fonte: componentistica e sistemistica. Anche la nostra industria italiana può cavalcare da subito questo sviluppo e in effetti lo sta già facendo. Di fatto, la nostra filiera nazionale non è affatto morta con l’abbandono del nucleare in Italia, ma al contrario ha continuato a lavorare con successo all’estero nonostante le politiche energetiche nazionali sfavorevoli succedutesi nel corso degli anni. Ansaldo Nucleare ha lavorato su impianti nucleari in Cina, in Romania e sul grande reattore sperimentale a fusione denominato ITER in Francia. Recentemente ha siglato un importante accordo con Edison e la francese EdF per lo sviluppo e realizzazione di impianti nucleari avanzati in Europa. Ma anche molte altre imprese nazionali sono impegnate in progetti per la realizzazione di nuove centrali.

E quindi cosa bisogna fare per sostenere questo comparto, già attivo e dalle grosse potenzialità?

La prima cosa da fare è rafforzare questa capacità industriale che per fortuna non si è persa in questi anni, per aumentare business e PIL nazionale con progetti e realizzazioni all’estero. Inoltre, le aziende energivore, così come sta facendo ad esempio Federacciai, potrebbero pensare di stipulare contratti di lungo termine con i paesi vicini che producono elettricità da nucleare, così da garantirsi un prezzo dell’energia carbon-free altamente competitivo e stabile nel tempo. Bisogna però agire in fretta, perché le cordate industriali per accaparrarsi queste commesse si stanno già formando. Come ricordavo sopra, Ansaldo per esempio ha fatto un accordo con EDF ed Edison per la realizzazione di impianti nucleari di nuova generazione in Francia.

In secondo luogo, serve un supporto anche da parte dello Stato, perché c’è bisogno di qualificare più industrie, di creare una hub nazionale per qualifica di sistemi e componenti per i reattori di nuova generazione, di sviluppare nuove competenze nei vari settori, e di offrire posti altamente qualificati ai nostri giovani. Tutto questo gioverà, anche in prospettiva, per creare basi solide per lo sviluppo e le realizzazioni nucleari nel nostro paese.

Occorre peraltro rilevare che in Italia, dopo 30 anni (l’ultimo impianto è stato spento nel 1990) non si può costruire un impianto nucleare dall’oggi al domani, perché il nostro paese ha perso alcuni tipi di competenze, pur mantenendo quelle industriali; ha perso alcune infrastrutture di base, come una Autorità di sicurezza indipendente in grado di licenziare uimpianto nucleare, o la capacità di gestire progetti nucleari complessi, incluso i complessi aspetti economico-finanziari.

Infine, serve tempo per ricostituire confidenza e consenso da parte della popolazione, sulla base di una informazione corretta, trasparente e completa sui benefici e i limiti di ciascuna fonte energetica.

In questo processo, dobbiamo farci supportare dalle agenzie internazionali preposte, come ad esempio la International Atomic Energy Agencydelle Nazioni Unite, che aiuta sia i paesi membri che non hanno mai incluso l’energia nucleare nel proprio mix energetico, sia quelli in fase di espansione sia, infine, quelli, come l’Italia, che intendono riconsiderare questa opzione rispettando i più elevati standard di sicurezza, security e salvaguardia nucleari. E’ anche necessario siglarie accordi con paesi che hanno una tradizione decennale di utilizzo del nucleare a fini pacifici (tipo Francia e Finlandia). Una volta che tutto questo sarà fatto, si saranno create delle basi solide affinché un’utility sia nelle condizioni di negoziare un contratto di fornitura di una centrale nucleare con uno dei cosiddetti vendor di reattori nucleari.

Quindi, quali sono i tempi? I costi?

Si fa spesso riferimento al caso degli Emirati Arabi Uniti che, partendo da zero, sono arrivati a un impianto di grande taglia collegato in rete in 11-12 anni, un paio di anni in più rispetto ai 10 previsti. In questo caso il limitato ritardo è imputabile ad una tempestivo training degli operatori di impianto rispetto ai tempi di costruzione, il chè conferma la grande importanza dell’infrastruttura più rilevante ovvero le necessarie risorse umane qualificate. Ma la IAEA ha supportato con successo e con tempistiche simili anche altri Paesi quali la Turchia, la Bielorussia, il Bangladesh, l’Egitto, ecc.. La stessa tempistica, o anche meno, potrebbe essere necessaria per l’Italia, che, a differenza degli Emirati e degli altri Paesi sopracitati, non parte da zero, perché ha centinaia di imprese ancora attive sul nucleare, ha enti di R&S (ENEA, INFN; …) e università (Consorzio CIRTEN) ancora molto attivi sul nucleare di primissimo ordine, può contare su una rete elettrica molto sviluppata in grado di accettare qualsiasi impianto nucleare, possiede la cultura della sicurezza nucleare…e così via.

Mediamente per la realizzazione di un impianto di grande taglia, i tempi sono di 6-7 anni. Ovviamente, ci possono essere delle eccezioni, come nel caso della Finlandia e della Francia, dove per la costruzione e partenza della tecnologia EPR i tempi e i costi si sono dilatati. A giustificare i ritardi, però, è stata la politica poco lungimirante dell’Europa che negli ultimi decenni ha smesso di costruire nuovi impianti nucleari, perdendo così buona parte della propria supply chain industriale, la capacità di certificare e licenziare impianti rispettando i tempi, la formazione e training di una nuova generazione di tecnici e ingegneri in grado di lavorare nel settore nucleare, ecc.. In aggiunta i ritardi sono stati fisiologici in quanto si trattava di realizzare il primo esemplare di una nuova tecnologia di reattori, e come sempre avvenuta nella storia e non solo in campo nucleare, il primo reattore della filiera è più impegnativo per quanto riguarda progettazione, realizzazione e commissioning. Oggi, invece, che la filiera è ormai avviata, la costruzione di un nuovo impianto richiederà tempi più brevi, dell’ordine dei 5-6 anni.  Va inoltre considerato che i futuri Small Modular Reactor che si affacceranno sul mercato nei prossimi anni richiederanno tempi e investimenti decisamente inferiori.

Quanto ai costi, anche questi ultimi dovrebbero essere competitivi. A differenza delle fonti fossili, a incidere non è il costo del combustibile ma quello della realizzazione dell’impianto. Quindi è importante minimizzare tempi e costi di realizzazione per rendere il nuovo nucleare competitivo con le altre sorgenti carbon-free.

ll MASE ha previsto l’istituzione della “Piattaforma Nazionale per un Nucleare Sostenibile”, ma nei fatti, ad oggi quale è l’atteggiamento del governo nei confronti del nucleare?

Il Governo giustamente sta procedendo con cautela, perché sa che non si può partire con un progetto realizzativo se non c’è il consenso. Serve quindi coinvolgere le popolazioni e soprattutto i giovani, che hanno un atteggiamento meno ideologico e più concreto e si rendono conto che il nucleare è necessario per la transizione energetica. Come sopra ricordato, occorre inoltre ricreare una serie di infrastrutture materiali e immateriali che rappresentano la base per qualsiasi decisione.  Per questo motivo, il governo ha creato la Piattaforma Nazionale per un Nucleare Sostenibile, per riunire tutti gli stakeholder italiani e farli ragionare insieme su quello di cui c’è bisogno, in modo da dare alle istituzioni una roadmap e, successivamente, delle linee guida per rimettere in moto la macchina.

Ovviamente la piattaforma da sola non basta, servono investimenti. Se ci crediamo bisogna investire sulle risorse umane e sulla riqualificazione dell’industria anche in funzione delle realizzazioni all’estero. Infine, per un paese come l’Italia a forte penetrazione di rinnovabili, occorre sviluppare sistemi integrati nucleari/rinnovabili in grado di decarbonizzare, anche attraverso la cogenerazione, l’intero settore energetico, incluso i cosiddetti settori hard-to abate.

Un’ultima domanda relativa ai rifiuti radioattivi? Come gestirli?

Per prima cosa, bisogna fare chiarezza. Spesso si dice che i rifiuti radioattivi sono pericolosi perché durano anche centinaia e migliaia di anni, però si sottace sul fatto che ci sono processi chimici che generano tutti i giorni inquinanti che in realtà non decadono mai, tipo i metalli pesanti.

I rifiuti radioattivi hanno un loro decadimento nel tempo e fin quando decadono devono essere mantenuti separati dalla biosfera.

Non tutti i rifiuti radioattivi sono uguali. Ne esistono di bassa, media e alta radioattività e anche con tempi di decadimento molto diversi. Alcuni radioisotopi decadono in secondi, in minuti, in giorni e altri in migliaia di anni.

La gestione è diversa a seconda del tipo di rifiuto radioattivo. Già oggi l’Italia deve gestire i rifiuti nucleari che non solo derivano dall’industria nucleare (decommissioning delle vecchie centrali e loro smaltimento), ma anche dalla medicina, da alcune applicazioni industriali, dal mondo della ricerca, ecc.

I rifiuti radioattivi a bassa e media radioattività, nucleari e non, devono essere gestiti e stoccati in un deposito che si chiama ingegneristico e che anche in Italia è sul tavolo da decine di anni, ma ancora non è stato realizzato, nonostante il nostro paese possa contare su approcci di sicurezza e tecnologie fra i più avanzati al mondo. La reticenza a costruirlo è ingiustificata, visto che già in giro per il mondo ne esistono circa 140 e che tutte le organizzazioni internazionali hanno confermato la capacità del nostro paese a realizzarlo. Serve solo la volontà politica di farlo e il coinvolgimento delle popolazioni locali.

 Al deposito ingegneristico, va associato, probabilmente a livello regionale, un deposito geologico, che serve per quei rifiuti radioattivi che rimangono pericolosi per decine di migliaia di anni e che devono essere stoccati in formazioni di tipo geologico. Si parla di deposito geologico già dall’alba dell’era nucleare, ovvero da 70 anni, ma solo oggi il mondo è pronto realizzarli e gestirli. Sinora questi depositi non sono stati realizzati perché sono stati preferiti quelli temporanei (fino a 100 anni) ma, oggi alcuni paesi hanno deciso di accelerare i processi di realizzazione, avvertendo una domanda dal basso in tal senso.

 La Finlandia sarà la prima ad aprire un deposito geologico fra pochi anni e poi a mettere in sicurezza definitiva il combustibile esaurito. Seguiranno Svezia, Francia e via via gli altri. Sull’ubicazione di questi depositi si apre un capitolo molto ampio, perché, come dicevo sopra, da tempo si parla di depositi regionali dedicati alle esigenze di più paesi. Serve però un impegno a cambiare le regole e un’azione coordinata a livello europeo o, al limite, internazionale.