Che con l’eliminazione degli sconti sulle accise i prezzi dei carburanti potessero subire un rialzo era prevedibile; quel che non ci si poteva aspettare era la conseguente onda mediatica. Accuse di speculazione mosse dal Governo, poi leggermente ridimensionate, appello dai parte dei gestori, approvazione in tempi record di un Decreto Trasparenza. Abbiamo cercato di ripercorrere i principali eventi di questi ultimi giorni con il Presidente di Assopetroli-Assoenergia Andrea Rossetti che ci ha esposto, con chiarezza e dettaglio, le sue ragioni e le sue perplessità sul nuovo Decreto.
A gennaio diesel e benzina costano di più, questo è un dato di fatto. Tuttavia, l’incremento è inferiore al rialzo delle accise perché il prezzo industriale è diminuito. Allora perché dalle poltrone del governo si grida alla speculazione?
La scelta di eliminare gli sconti sulle accise ha un razionale di fondo. Si tratta di una misura molto onerosa per la finanza pubblica (pesa circa un miliardo di euro tra accise e IVA, secondo le stime del Governo) e, alla luce delle attuali riduzioni delle quotazioni dei prodotti petroliferi raffinati (rilevate dal Platts), riteniamo potessero esserci gli estremi per reintegrare le aliquote di accisa in vigore prima degli sconti.
Il rincaro delle accise è, tuttavia, una misura estremamente impopolare e il Governo, creando un clima di caccia alle streghe, ha creduto di poter distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità, gettandole sulla categoria della distribuzione dei carburanti.
Dai numeri delle banche dati istituzionali riportati sopra, però, si evince chiaramente che non esiste alcuno scostamento del prezzo del carburante rispetto all’andamento consolidato e alle medie monitorate dall’Unione europea. In altri termini, gli aumenti sono dovuti sostanzialmente alla fine dello sconto sull'accisa e non sembrano emergere anomalie attribuibili a una scorretta condotta delle imprese della distribuzione. Ciò non sorprende, dal momento che gli operatori della distribuzione sono dei meri price-takers: la loro capacità di intervenire sulla definizione dei prezzi è fortemente limitata, tale da rendere pressoché impossibile alcuna manovra speculativa.
L’accusa che ci viene rivolta è ancor più insensata se si guarda alla conformazione del nostro comparto: la rete carburanti è costituita da oltre 22.000 impianti con oltre 270 marchi differenti. Affinché si possa mettere in atto quella fantomatica speculazione di cui parla il Governo, sarebbe necessario che tutti questi soggetti si mettessero d’accordo per alzare i prezzi: una pura follia.
Come associazione di categoria rappresentate le piccole e medie imprese della filiera dei carburanti. Che ruolo hanno queste ultime nel determinare i prezzi? E in che modo le ultimissime misure varate dal Governo le riguardano?
Nel settore della distribuzione dei carburanti non esistono prezzi e margini amministrati. Si tratta quindi di un mercato pienamente liberalizzato che consente agli esercenti, nel rispetto delle norme fiscali, di praticare il prezzo migliore rispetto all’area di mercato dove opera.
Parlare di speculazione oltre ad essere errato in un settore commerciale liberalizzato è estremamente difficile: in aggiunta a quanto richiamato in precedenza, ricordiamo anche che la competizione nel nostro settore è tale da aver già fortemente compresso i margini, per cui anche un minimo differenziale di prezzo al rialzo può mettere fuori mercato un impianto.
Si consideri, inoltre, che il comparto è soggetto a stretta vigilanza: già oggi gli operatori trasmettono settimanalmente (e ogni qualvolta intervenga un aumento) al MIMIT i prezzi praticati. Sulla pagina Osservaprezzi dello stesso Ministero è già possibile mettere a confronto, in tempo reale, i prezzi praticati da tutti gli impianti d’Italia.
Tanto premesso, al settore della distribuzione non si può certo imputare alcuna carenza di trasparenza o capacità di alterare indebitamente i prezzi di vendita.
Entrando nel merito del provvedimento, oltre a ribadire l’iniquità e l’onerosità di ulteriori obblighi, peraltro inutili, la previsione di esporre il prezzo medio regionale comporta tre macro-criticità.
In primo luogo, il prezzo medio regionale non è il parametro corretto da utilizzare per operare confronti tra i prezzi. Sui prezzi infatti incidono diversi oneri, tra i quali costi di gestione, logistica, disponibilità di prodotto, etc., che possono variare sensibilmente a seconda delle zone e della tipologia di impianto, anche all’interno di una stessa regione.
In secondo luogo, l’esposizione del prezzo medio regionale accanto ai prezzi giornalieri praticati dall’impianto, oltre a disorientare il consumatore, rischia di penalizzare quegli impianti che, per constatabili maggiori costi operativi (può essere il caso degli impianti ubicati in zone impervie o isolate, etc), praticano un prezzo superiore rispetto alla media.
In terzo luogo, il Governo non ha debitamente considerato che le nuove norme in materia di esposizione dei prezzi saranno onerose per le aziende. La nostra associazione stima che sarà necessaria una spesa complessiva di 350 milioni di euro che, inevitabilmente, finirà per impattare sui prezzi finali. Per giunta i nuovi obblighi non sono certo realizzabili in 15 giorni dalla pubblicazione del decreto ministeriale attuativo. Realisticamente servirebbe un periodo transitorio di almeno 6 mesi per consentire alle aziende di completare i numerosi adempimenti tecnici e burocratici necessari.