Chi troppo in fretta sale cade sovente precipitevolissimevolmente. E questo si sa. Ma cosa succede a chi troppo in fondo cade? C’è da domandarselo, dopo che per la prima volta nella storia il futures sul WTI è stato scambiato in territorio negativo, arrivando a segnare -40 dollari al barile. È successo a inizio di questa settimana, lunedì in tarda serata, per motivi tecnici (l’avvicendarsi del contratto di maggio con quello di giugno) e logistici (l’ingorgo a Cushing). E, anche se si tratta di una vicenda che riguarda in particolare il mercato USA del petrolio, il record negativo è destinato a far riflettere, un po’ come quello del 2008 quando il prezzo dei futures sul petrolio (allora sia quelli del Brent che del WTI) schizzarono a 150 dollari al barile prima del fallimento della Lehman Brothers. Sbalzi repentini, che dovrebbero mettere sull’avviso gli economisti: quando i prezzi del petrolio fanno piroette, c’è nell’aria odor di tempesta per tutti i settori produttivi.
Al di là dell’episodio di inizio settimana sul WTI, da inizio anno il calo dei prezzi del petrolio e dei prodotti petroliferi è stato inarrestabile. I futures primo mese sul Brent (oggi fermi al contratto di giugno) sono scesi del 60%, passando da 66 dollari al barile del 1° gennaio a circa 25; come detto, quelli sul WTI hanno fatto molto peggio, complici la speculazione finanziaria sul Covid-19 e l’ingorgo logistico causato dal rallentamento delle attività di raffinazione in USA, passando da 61 a circa -40 dollari al barile, nel delicato giorno che precede l’avvicendamento tra contratti (mentre quello di giugno – che oggi prenderà il suo posto – rimane ben ancorato intorno quota 20). Il mercato petrolifero si trova in quella condizione che tecnicamente viene chiamata contango: il greggio consegnato oggi (pronto) costa meno di quello che sarà consegnato domani, perché si prevede che la domanda nei prossimi mesi sarà più forte, quando l’emergenza pandemia si sarà affievolita.
Andamento futures primo mese di Brent e WTI
Fonte: Elaborazione Staffetta Quotidiana su dati ICE e CME
Questi dati, complessi e impressionanti, rivelano il grande caos che durante questi primi mesi dell’anno ha interessato, e tuttora sta interessando, il mercato del petrolio. In tutti i suoi livelli, fisico e finanziario, e lungo tutta la sua filiera, dal trasporto del barile di grezzo alla pompa di benzina.
Come sempre, il crollo delle quotazioni dei futures sul greggio si è trasmesso anche ai prezzi spot dei prodotti petroliferi: in Europa, tra Genova e Rotterdam, in media le quotazioni della benzina a inizio anno erano pari a circa 615 dollari per tonnellata, lunedì sono scese a 194 (-68%), un po’ meglio quelle del diesel, passate da 620 a 245 dollari tonnellata (-60%). Il tutto mentre il cambio euro/dollaro, in preda a una forte instabilità, è passato da 1,12 a 1,08.
Variegata la situazione per quel che riguarda alcune particolari qualità di greggio meno pregiate, come ad esempio quello estratto in Canada dalle sabbie bituminose dell’Alberta, il Western Canadian Select, che sceso sotto il break-even point è andato fuori produzione da settimane. I costi di produzione sono ormai molto al di sopra dei prezzi di vendita, i quali viaggiano allo sbando in terreni negativi da ben prima del WTI.
Andamento prezzi Paniere Opec che raggruppa 13 qualità diverse di greggio
Fonte: Elaborazione Staffetta Quotidiana su dati OPEC
Ma il fatto che la stessa incredibile sorte stia per toccare anche allo shale oil che viene estratto in Texas e in Oklahoma, mentre le cisterne traboccano a Cushing, è uno scacco matto alla politica interna di Donald Trump. Infatti, il presidente degli Stati Uniti, che pure ha svolto un ruolo molto importante a livello internazionale agevolando l’accordo dell’Opec Plus, a livello federale ha scelto di rimanere neutrale, tirato per la giacchetta, da una parte, dalle raffinerie della costa USA del Golfo del Messico che vogliono che tutto resti così com’è per avere greggio a buon mercato; e dall’altra dai frackers del Midwest, che da settimane invocano quote produttive o dazi all’importazione di greggio per riuscire a far quadrare i conti.
Come se la situazione non fosse già abbastanza complicata, i noli delle petroliere, spesso utilizzate come scorte galleggianti, sono da tempo saliti alle stelle. Tutto sembra quindi cospirare affinché paesi produttori e compagnie petrolifere agiscano in fretta per mettere un freno alla produzione di petrolio, costi quel che costi.
Quindi, se è vero che il petrolio è il sangue che scorre nelle vene dell’economia mondiale (come ricorda l’Economist di questa settimana in un commento), è come se il crollo verticale dei prezzi avesse generato una sorta di policitemia. E mentre qualche “sanguisuga” ne sta beneficiando (trader, hedge fund, money manager, broker e via dicendo, che vendendo allo scoperto guadagnano di più se gli indici crollano), intanto “i prezzi da capogiro” mettono a dura prova l’industria del settore e tutte le altre collegate. Facendo inoltre addensare nubi all’orizzonte per quel che riguarda il futuro degli approvvigionamenti di greggio e di carburanti.
Ma procediamo con ordine. La prima a predire apertamente che il prezzo del petrolio sarebbe arrivato a 20 dollari al barile è stata la banca d’affari Goldman Sachs, in un rapporto di metà marzo, dove la caduta delle quotazioni era indicata come conseguenza inevitabile del crollo della importante domanda cinese, a sua volta derivato dalla stretta quarantena che il paese stava vivendo per contrastare gli effetti del nuovo Coronavirus, il Covid-19, che ha causato oltre 3.000 morti nel paese.
Poi quella che all’inizio sembrava un’epidemia strettamente localizzata alla Cina, si è rivelata una pandemia, ferale soprattutto per l’occidente. Ad oggi sono morte oltre 160.000 persone, la maggior parte delle quali americane, italiane e spagnole; misure di contenimento sono state disposte in ben 187 paesi, circa 4 miliardi di persone nel mondo sono sotto lock-down; il Fondo Monetario Internazionale prevede per quest’anno un calo del Pil mondiale del 3% (con l’Europa a -7,5% gli USA a -5,9% e lʼItalia -9,1%), in quella che sarà la più grande recessione dalla “grande depressione” degli anni ‘30 del secolo scorso.
Eppure ci sono giorni in cui i prezzi del petrolio, nonostante le brutte notizie si susseguano incessantemente, sembrano aver trovato quello che in gergo finanziario si chiama un “floor” intorno a quota 20, un pavimento adatto ad arrestare la caduta. È successo anche grazie all’intervento dei paesi produttori, che prima con l’Opec Plus, poi con il G20 Energia hanno annunciato al mercato che – nonostante le divisioni e le annose antipatie reciproche – si lavorerà per eliminare dal mercato l’eccesso di offerta e ripristinare un equilibrio con la domanda di petrolio, che al momento – secondo le stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) – è intorno ai 75 milioni di barili al giorno, ma che dovrebbe risalire a 90 milioni di barili al giorno entro la fine dell’anno, quando cioè quarantene e pandemie saranno finalmente alle spalle, come tutti sperano.
Quindi, nella seconda parte dell’anno, se tutto andrà secondo le previsioni, i prezzi del petrolio potrebbero risalire, e c’è da lavorare perché non lo facciano in modo scomposto. Nel suo ultimo Oil Market Report, infatti, dopo aver previsto che nel primo semestre dell’anno ci sarà un surplus di offerta di 12 milioni di barili al giorno, dalle tabelle AIE si evince che per il semestre successivo il deficit dell’offerta potrebbe essere superiore di oltre 4,5 milioni di barili al giorno (se i paesi membri dell’Opec Plus si atterranno alle quote e davvero la domanda risalirà a 90 mln b/g). All’inizio il deficit potrà essere facilmente colmato attingendo all’ampio accumulo di scorte, ma cosa succederà nel medio-lungo termine? La domanda è preoccupante, soprattutto se si considera che le compagnie petrolifere stanno da molto tempo (da ben prima che arrivasse il Covid-19) riducendo gli investimenti nell’upstream, anche per venire incontro alle direttive sempre più green dei consigli di amministrazione. Ancora una volta l’AIE calcola che nel 2020 gli investimenti Oil&Gas si ridurranno del 32% rispetto all’anno precedente, scendendo a 335 miliardi di dollari, il livello più basso degli ultimi 13 anni.
Che accadrà ai prezzi del petrolio quando i livelli delle scorte saranno tornati alla normalità e il basso livello degli investimenti delle major renderà difficile, se non impossibile, recuperare le riserve necessarie a soddisfare la domanda? Probabilmente ci sarà un bel rimbalzo dei prezzi del barile, di quelli durante i quali è meglio allacciare le cinture, di quelli che proprio non ci vogliono quando l’economia mondiale ha bisogno di materie prime a buon mercato per uscire in fretta da una brutta recessione. Tutto questo a meno che non prevalgano le previsioni ambientaliste di chi vede nel Covid-19 la spinta ad accelerare un’inevitabile distruzione della domanda petrolifera, con i consumi di carburanti e plastiche che diminuiranno nel mondo sempre più, verso quella che da qualche tempo viene chiamata l’era del post-petrolio. In ogni caso, reggiamoci forte! L’ottovolante è partito alla grande, ma è solo l’inizio.