Per capire il senso dell’accordo OPEC Plus firmato all’inizio di aprile bisogna fare un passo indietro, evitando analisi che abbiano troppo a che fare con classiche logiche di mercato e di contingenza economica. Certo, la domanda è crollata, e in un gioco al quale siamo ormai abituati da quarti di secolo i produttori sanno molto bene che in questi casi hanno convenienza a tagliare la produzione e a far salire il prezzo, guadagnando sul margine. In realtà, già questa semplice dinamica, vecchia quasi quanto i primi grandi pozzi sauditi, elude le logiche che governano gran parte degli altri mercati di materie prime. Perché il petrolio è da sempre “speciale”, soggetto a forze che col mercato hanno spesso poco a che fare, e che di solito hanno più attinenza con la politica interna ed estera dei paesi produttori e dei paesi consumatori.

C’è sempre stata, per esempio, l’anomalia OPEC. Un cartello di paesi produttori “tollerato” dal resto del mercato che per decenni è stato in grado di controllare i prezzi avendo ben salde le redini dell’offerta. Un’offerta per la maggior parte concentrata nelle mani (o meglio, nel sottosuolo) di pochi importanti esportatori, che accordandosi fra di loro potevano decidere prezzo e livelli di produzione secondo le loro migliori convenienze economiche e, soprattutto, politiche. Non è un caso che tra Hormutz e Corno d’Africa si concentrino basi e flotte straniere. Ci sono gli americani, soprattutto, ma ultimamente non solo. Nell’area hanno cominciato ad avere avamposti militari più o meno importanti anche Cina, Giappone, e Turchia, mentre i russi sarebbero in procinto. Avere una propria nicchia, anche limitata, nell’equazione di sicurezza dell’area di passaggio di gran parte del greggio mondiale ha infatti sempre valso impagabile influenza politica sui paesi produttori (e i loro regimi) che di quella sicurezza son tradizionalmente stati i principali beneficiari. Così che il prezzo del greggio da sempre non è tanto il prodotto di pure forze di mercato, quanto il risultato di una equazione al cui interno pesano in modo cruciale convenienze politiche e alleanze internazionali.

Ma la verità è che un cartello funziona bene quando detiene un monopolio quasi totale. E per l’OPEC non è più così da parecchio tempo. Anni di prezzi alle stelle, ben oltre i 100 dollari al barile, hanno fatto la gioia dei regimi dei paesi produttori, che hanno potuto spendere e spandere e assicurarsi così l’acquiescenza di popolazioni con più preoccupazioni da obesità e diabete che problemi socioeconomici. Ma hanno anche fatto in modo che fonti alternative al greggio OPEC diventassero sempre più convenienti. Miglioramenti tecnologici hanno reso economicamente vantaggiose estrazioni in paesi come Canada e Brasile e, soprattutto, hanno reso possibile l’avvento dello shale oil, quel surrogato del greggio estratto dalle pietre bituminose che nel giro di un decennio ha trasformato gli Stati Uniti da primi importatori a massimi produttori mondiali, in grado di esportare e competere sul mercato con attori consolidati come Arabia Saudita e Russia.

Ed è proprio la presa di consapevolezza di questo cambiamento copernicano che ha reso da qualche anno imprescindibile aggiungere un “Più” alla fine di OPEC. Il vecchio cartello aveva perso il suo monopolio sull’offerta, e per recuperarlo aveva bisogno di ampliarsi, includendo produttori un tempo esclusi in grado di rimettere nelle mani della nuova organizzazione l’agognato controllo perduto. Soprattutto l’aggiunta di un peso massimo come la Russia ha dato l’illusione, almeno per qualche tempo, di poter ristabilire l’abituale ordine delle cose: la maggior parte dell’offerta era di nuovo nelle mani di un fronte unito di produttori. Certo, un fronte assai più numeroso rispetto al passato, in cui l’Arabia Saudita ha dovuto rinunciare al proprio ruolo di leader assoluto per condividerlo con Mosca. Ma almeno i prezzi erano tornati controllabili, e Riyadh non doveva più svolgere da sola la propria onerosa parte di swing producer.

A dire il vero, i primi segni che non proprio tutto andava a gonfie vele si sono rivelati fin da subito. Il crollo dei prezzi, spinto dai sauditi nel 2015 soprattutto per arginare, se non eliminare completamente, i competitor shale americani, ha avuto scarsi effetti. Negli anni successivi a ogni taglio della produzione per sostenere il prezzo internazionale, un po’ del mercato lasciato libero è stato opportunisticamente occupato dalle compagnie USA, libere di giocare al libero mercato all’ombra di OPEC+. Alla lunga è stato proprio la spina nel fianco dello shale statunitense che ha fatto saltare l’armonia tra sauditi e russi: i primi decisi a proseguire con la politica dei tagli per sorreggere i prezzi e i secondi poco inclini a seguirli per non vedersi sottrarre altre quote di mercato dagli americani, salvo poi ripensarci a inizio aprile quando la reazione saudita al loro rifiuto di proseguire con la riduzione produttiva ha fatto crollare i prezzi a minimi che non si vedevano da tre decadi. Minimi che questa volta hanno spaventato seriamente anche gli americani, portando Trump a promettere un qualche tipo di riduzione anche da parte delle compagnie private statunitensi (per quanto tecnicamente il presidente non abbia alcun controllo sul settore privato).

L’OPEC Plus, quindi, sembra voler diventare ancora più grande, una sorta di OPEC Plus Plus, includendo anche il gigante USA, con modalità però ancora poco chiare. Ma basterà? Il punto vero è che oggi appare sempre più evidente che controllare tutta l’offerta petrolifera del mondo vale poco se nessuno è disposto a comprarla. Per avere un’idea, il taglio record di 10 milioni di barili non equivale a nemmeno la metà della diminuzione di domanda prevista per il mese di aprile. E mentre certamente tempi migliori verranno una volta passata l’attuale emergenza, pochi contano che i livelli possano velocemente tornare ai livelli pre-Covid19. Il potere di un cartello, grande o piccolo che sia, si misura sulla domanda per la merce di cui ha il monopolio. E per quanto riguarda l’OPEC, non importa quanti “Plus” abbia, il declino sembra difficilmente reversibile.