Il Grande Medio Oriente, area politica che dal Marocco arriva sino all'Afghanistan, come definito dall'Amministrazione Bush nel 2004, continua ad essere, nonostante i vari tentativi di disimpegno sia militare che economico la principale arena per la competizione tra potenze mondiali. In queste ultime settimane, a seguito della potenziale escalation vissuta tra Stati Uniti e Iran, la regione è tornata ad essere al centro dell'attenzione dei media e delle cancellerie internazionali. Complice anche la ripresa della crisi libica dallo scorso aprile.
La situazione attuale, nel paese africano, è infatti diretta conseguenza degli eventi che hanno preso forma a partire dal 4 aprile 2019, quando il generale Haftar - uomo forte della Cirenaica - ha lanciato l'offensiva militare verso Tripoli. Obiettivo del generale, oltre a quello ufficiale della conquista della capitale del paese, era quello di sovvertire una situazione di sostanziale equilibrio che si andava cristallizzando, alla luce della successiva Conferenza di Ghadames, prevista originariamente dal 14 al 16 aprile in Libia e voluta dall'Onu, nella quale si sarebbe deciso il futuro politico del paese, ponendo finalmente fine al lungo periodo di transizione.
Parafrasando Robert Gilpin in "War and Change in World Politics", una situazione di equilibrio per reggere ha bisogno di alcuni presupposti: uno di questi è il fatto che nessun attore in un dato sistema ritenga vantaggioso un mutamento dello stesso. Al contrario, un attore, se ritiene che i costi del perseguire un mutamento possano essere inferiori ai benefici da esso determinati, tende a contestare lo status quo. L'offensiva avviata da Haftar, quindi, va inserita in una strategia di lungo termine. Il Generale della Cirenaica, infatti, ha rimandato il tavolo di trattative previsto per lo scorso aprile per accrescere il proprio peso politico e sedersi al suddetto tavolo alla pari con al-Serraj, il premier riconosciuto dai consessi internazionali.
Per provare a ribaltare le gerarchie interne al paese, Haftar ha potuto contare su un sistema di alleanze sicuramente importante dal punto di vista politico ed economico: Russia in primis, ma anche Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi, cioè quel fronte arabo-sunnita avverso alla galassia dei Fratelli Musulmani, e che tira le fila della nuova frattura nata in seno all'Islam, profonda quanto quella più nota tra sciiti e sunniti. Alleanza, quella a supporto di Haftar, che tuttavia durante i primi mesi dell'avanzata del Generale verso Tripoli non è intervenuta con decisione. L'offensiva degli uomini di Haftar, infatti, si è dimostrata più debole del previsto: la spinta propulsiva iniziale si è affievolita, e l'avanzata si è tramutata in una lenta guerra di posizione combattuta per lo più a sud di Tripoli.
Una situazione, questa, già vista nello scenario siriano: in mancanza di interventi delle potenze esterne, gli attori locali non hanno forza, risorse né legittimità per imporsi come forza egemone sul territorio.
A riprova di quanto detto, e ricordando un assunto di base delle relazioni internazionali applicabile anche in questo scenario locale, cioè che il potere è per natura relativo e che di conseguenza l’aumento del potere di un attore comporta un'eguale perdita per un altro, e l’assenza di un adeguato supporto ad al-Serraj da parte degli Stati europei si è tradotto nell’intensificazione dei rapporti tra Tripoli e Ankara. Erdogan ha inizialmente aiutato il premier libico con l'invio di esperti militari, oltre che di mezzi corazzati e droni, riuscendo a drenare la già flebile avanzata dell'esercito di Haftar.
Nelle ultime settimane, però, l'offensiva, supportata finanziariamente dal sistema di alleanze dei paesi arabo-sunniti sopra citati, e adeguatamente rinforzata dall'invio della Russia di un'unità di mercenari della compagnia Wagner (che già in altri teatri, come quello ucraino, si sono distinti per capacità militari), ha ritrovato nuova linfa. Una spinta propulsiva tale che, per alcune ore, l'esercito della Cirenaica ha avuto il controllo sulla strategica città di Sirte, situata a metà fra Tripoli e Bengasi, lungo la strada che percorre la costa libica.
Il palesarsi delle alleanze dietro Haftar ha generato quella che Gilpin chiama la “legge della crescita diseguale”, che è la causa fondamentale delle guerre e dei cambiamenti nella politica internazionale. La variazione di un fattore, in questo caso l'aumento degli aiuti dell'alleanza a supporto di Haftar, ha prodotto una sostanziale modifica del potere relativo degli attori nell'area, cambiando la situazione pre-esistente. Con questa chiave interpretativa va analizzata la scelta di al-Sarraj di consolidare la propria alleanza con Erdogan, tramite la firma di un memorandum d'intesa, siglato il 27 novembre, relativo alla costituzione di “aree di giurisdizione marittima", che ridisegna i confini nel Mediterraneo tra i due Paesi e prevede collaborazioni nello sfruttamento delle sue risorse. Unito a questo, nei giorni seguenti, Erdogan ha palesato la possibilità di intervenire militarmente in aiuto di Serraj in caso di richiesta ufficiale. Alla luce della strutturazione di un'alleanza sempre più organica, il 2 gennaio il Parlamento turco ha votato con larga maggioranza l'autorizzazione all'invio di contingenti militari in Libia.
A questo punto, oramai fuori dai giochi, le diplomazie europee, compresa quella italiana, hanno tentato alcune mosse velleitarie (si veda il tentativo di Conte di incontrare nella stessa giornata prima Haftar poi Serraj). La sensazione forte, però, è quella di vedere oramai la regia del futuro della Libia spostata tra Istanbul e Mosca, come se la macchina del tempo ci avesse riportato al XIX secolo. Gli stessi due attori che solo poche settimane fa sono riusciti a trovare un accordo nel complesso scacchiere siriano, tramite l'instaurazione di una tregua che al momento continua a reggere. Segnale, questo, che lo stato di cooperazione tra Turchia e Russia, dopo la difficile situazione vissuta nel 2015 a seguito dell'abbattimento del jet russo, è sempre più solido, ed entrambe le potenze cercano di ricoprire un ruolo egemone nella regione, approfittando del lento ma inesorabile disimpegno statunitense, palese in Libia ma praticato dall'attuale amministrazione anche in Siria e Iraq.
La bozza sulla quale dovrebbe reggere l'intesa tra le forze di Serraj e quelle di Haftar, definita da Turchia e Russia, che non a caso saranno i "garanti della tregua", si basa su pochi assunti: un cessate il fuoco immediato; la determinazione di una linea di separazione sul fronte di Tripoli da cui partire per ristabilire l’equilibrio sul terreno attraverso “una de-escalation”; permettere il passaggio sicuro dei servizi di assistenza umanitaria; costituire un sistema di dialogo formato da rappresentanti del governo e delle forze di Haftar, sotto la supervisione della missione Unsmil della Nazioni Unite; designare rappresentanti per dialogare con il rappresentante speciale incaricato dal segretario delle Nazioni Unite; designare gruppi di lavoro congiunti per pianificare “la soluzione politica intra-libica”.
Solo il tempo dirà se la tregua reggerà, ma evidenzia già da oggi l'uscita di scena della diplomazia europea da uno scenario che dovrebbe essere prioritario per l'agenda politica comunitaria.
Che la lente sotto la quale osservare il ritrovato impegno turco in Libia, a sostegno di Serraj, sia quella delle politiche espansionistiche di Erdogan, definite "neo-ottomane" da diversi osservatori internazionali, è un approccio che rischia di essere fuorviante. Così come è difficile credere che Erdogan possa impegnarsi militarmente in uno scenario difficile come quello libico, considerate anche le difficoltà che giungono da diversi focolai di opposizione interna, solo per un revanscismo storico-politico della provincia ottomana di Tripoli.
L'obiettivo di Erdogan è rendere la Turchia uno dei principali hub energetici del Mediterraneo, funzionale soprattutto per le forniture di gas verso l'Unione Europea. Da tempo le attività, spesso bellicose, della Turchia si sono manifestate nelle acque di Cipro: si ricordi l'episodio del febbraio del 2018 quando la marina militare turca bloccò la nave perforatrice italiana Saipem 12000, diretta verso l'isola per trivellare un giacimento concesso all’Eni.
La Libia rappresenta un ulteriore tassello della grande strategia turca, dopo l'inaugurazione, insieme alla Russia (guarda caso) del Turkstream, gasdotto che a regime dovrebbe fornire 15 miliardi di metri cubi di gas naturale russo a Turchia e Europa. Una solida alleanza con il futuro leader della Tripolitania garantirebbe non pochi vantaggi agli interessi energetici turchi: ad oggi la Libia garantisce all'Italia 6 miliardi di metri cubi di gas, l’8% del totale importato. Il paese costituisce il 17% della produzione di Eni: inutile sottolineare come la porta di accesso libica fornirebbe alla Turchia un ulteriore strumento di deterrenza nelle trattative con l'Unione Europea. Un'arma, quella energetica, che si somma a quello della gestione dei flussi migratori, ora specifico alla tratta balcanica, ma che una futura influenza della Turchia in Tripolitania allargherebbe anche alla tratta mediterranea.
Va ricordato che il nostro paese è un grande importatore energetico, e che la Libia rappresenta storicamente una sua fonte di approvvigionamento strategica. La sensazione è che in questa ultima partita l'Eni, attore primario nel paese nordafricano, sia stata lasciata sola dal governo italiano: da sottolineare però che l'azienda ha spesso dimostrato di saper fare diplomazia autonomamente, e c'è da augurarsi che, mai come in questo caso, sia così.
Quello che va evidenziato è la perdurante centralità del settore energetico nelle dinamiche internazionali, e di quanto l'indipendenza in questo settore sia fondamentale per accrescere il proprio status nella gerarchia di potere. Gli Stati Uniti, grazie al processo che li sta riportando verso l'indipendenza energetica, sono ormai liberi di disimpegnarsi da scenari scomodi che, al contrario, prima rivestivano un'importanza vitale per Washington: lo dimostrano in Libia, della quale al momento non sembrano curarsi, e lo dimostrano le ripetute azioni ostili avvenute nello stretto di Hormuz (vedi i diversi attacchi alle petroliere), alle quali l'amministrazione Trump non solo non ha risposto. Al contrario, le ha usate come monito verso gli alleati che non possono più contare sugli Stati Uniti per garantirsi la sicurezza delle esportazioni di greggio.
"Tutti questi paesi dovrebbero proteggere le loro navi in quello che è sempre stato un viaggio pericoloso. Noi non abbiamo neanche bisogno di essere lì perché gli USA sono diventati il maggior produttore di energia al mondo", twittava il Tycoon a giugno dello scorso anno. A distanza di 7 mesi il messaggio è più che mai attuale.