I colli di bottiglia marittimi sono uno dei principali fattori su cui si gioca il rapporto di forza tra le maggiori potenze mondiali. Dalla capacità o meno di controllarli passa il test per la supremazia dell’attore intenzionato a mettersi alla guida dell’ordine globale o, meno categoricamente, a provare a comporre il disordine del pianeta.
All’occhio dell’analista geopolitico, la massa decisiva per la distribuzione del potere è quella eurasiatica. Bicontinente su cui gravitano materie prime, traffici più o meno leciti, dinamismo demografico, prosperità economica, capacità (quando non velleità) ordinative istituzionali. Attorno ad esso si trova, tuttavia, una serie di stretti passaggi marittimi, detti chokepoint, che ne incorniciano il profilo: partendo dagli scandinavi Kattegat e Skagerrak, fino al russo-nipponico stretto di Sōya passando per la Manica, Gibilterra, Suez, Bab al-Mandab, Malacca, Taiwan e Tsushima, oltre alle non di certo trascurabili propaggini laterali come il mediorientale Hormuz, l’indonesiano Lombok o il sino-filippino Bashi.
A determinarne la strategicità è il ruolo di giugulari degli scambi materiali del pianeta, che per l’80% ancora si svolgono via nave. Il commercio di prodotti energetici non è da meno. Nel 2015, 58,9 milioni di barili di greggio al giorno - circa il 61% del commercio mondiale di petrolio - hanno solcato i mari di tutto il mondo. La maggior parte di essi è passata dallo Stretto di Hormuz e da quello di Malacca; seguono il Canale di Suez, Bab el-Mandeb, gli Stretti Danesi e Turchi, il Canale di Panama e il Capo di Buona Speranza. Ognuno di essi può dirsi un checkpoint fondamentale nello scacchiere della geopolitica energetica; nessuno di questi può dirsi immune dai rischi collegati al ruolo che sono chiamati a ricoprire. Furti ad opera di pirati, attacchi terroristici, ostilità belliche, incidenti navali: il blocco anche temporaneo di uno di questi passaggi, con conseguente collasso delle relative forniture, può generare uno shock sui mercati energetici, influenzandone al rialzo i prezzi.
Transito giornaliero di risorse petrolifere presso i principali chokepoint nel 2016 (mil. bbl/g)
Fonte: EIA DOE
A sancire l’assoluto valore geopolitico dei chokepoint è il fatto che il controllo delle rotte marittime rappresenti la radice geografica dell’impero mondiale degli Stati Uniti d'America. Sul dominio dei mari, ereditato dai britannici nel corso del suicidio europeo fra 1914 e 1945, Washington continua a fondare il proprio primato. Condizione necessaria ma non sufficiente, dovendo comunque proporre un impianto ideologico che poggia sul liberalismo politico-economico per invocare l’apertura delle vie di comunicazione. Ed essendo obbligata a mantenere accessibile e attrattivo il proprio mercato interno per merci e immigrati, al fine di vincolare la prosperità altrui alla propria.
In sostanza, l’unico attore al mondo in grado di controllare tali rotte è la Marina degli Stati Uniti. Affermazione dimostrabile anche per negazione: nessuna potenza può allo stato dell’arte sfidarne il primato. Non certo la Russia, il cui accesso agli oceani è impedito a est dalla desolata demografia e a ovest da stretti (quelli turchi e danesi) fuori dal suo raggio. Non dalla Cina, la cui pur numerosa flotta è poco più che una guardia costiera. Non dall’Arabia Saudita, immenso forziere energetico prigioniero di se stesso, nella cui disponibilità strategica non figura Hormuz e solo a fasi alterne Suez e Bab al-Mandab. E nemmeno da colossi economici come Germania, Giappone, India, ancora confinati al nanismo geopolitico dal peso della storia recente o dalla caleidoscopica demografia.
Osservando lo schieramento militare mondiale degli Stati Uniti, ne si può cogliere la fissazione strategica per mantenere aperti e sicuri i principali colli di bottiglia. Su Gibilterra vegliano le unità navali stanziate nella spagnola Rota, da Gibuti si monitora Bab al-Mandab e il porto di Singapore è regolarmente frequentato da imponenti gruppi da battaglia a stelle e strisce. Di più, l’incertezza che dalla rivoluzione iraniana del 1979 aleggia su Hormuz è la principale ragione per cui Washington si è dotata del Central Command, la cui flotta è stanziata in Bahrein. E pure la costruzione del canale di Panamá obbedì, fra le altre cose, a impellenze belliche, dovendo consentire alle navi statunitensi manovre più veloci in caso di attacco congiunto da Atlantico e Pacifico.
Nondimeno, i colli di bottiglia sono poste in gioco di alcune delle principali partite geopolitiche in corso.
La Belt and Road Initiative per le nuove vie della seta è l’esplicita risposta della Cina al controllo statunitense sui mari, interpretata da uno dei più importanti generali cinesi come fuga a ovest dalla pressione Usa proveniente da sud e da est. Sinora la strategia di Washington per contenere la Repubblica Popolare Cinese si è basata sul potenziale blocco di Malacca, tagliando così l’approvvigionamento energetico di cui è assetato il Dragone. L’accesso cinese agli oceani, reso ancor più difficoltoso dalla catena di isole che dal Giappone arriva all’Indonesia passando per Taiwan e Filippine, ha quindi costretto Pechino ad aggirare la tenaglia puntando sul potere redentivo dei propri progetti infrastrutturali in Pakistan e Myanmar.
Inoltre, il rinnovato attivismo militare di Mosca, oltre a volersi proiettare oltre i Dardanelli nel Mediterraneo, spinge gli strateghi statunitensi a riscoprire i toni da “Caccia a Ottobre Rosso” nel cosiddetto Giuk Gap, il braccio di mare fra Groenlandia, Islanda e Regno Unito, parco giochi di sottomarini nucleari di ogni bandiera. Infine, fra i motivi che alimentano l’intervento dell’Arabia Saudita nel caos yemenita c’è la garanzia su Bab al-Mandab, su cui avevano messo le mani le milizie huthi e i lealisti di Saleh.
L’intrinseco valore dei colli di bottiglia determinerà l’internazionalizzazione di alcuni possibili focolai di crisi. Tralasciando la competizione per Gibuti – attracco all’ingresso del Mar Rosso su cui fanno a gara a realizzare infrastrutture militari Stati Uniti, Francia, Cina, Arabia Saudita e Turchia – il braciere più ardente è quello dell’Egitto. Strabordante di popolo (nessuno ha idea con precisione di quanti siano gli egiziani) e poggiata su fragilissime basi economiche, la valle del Nilo getta più di uno sguardo nell’abisso.
Se il guardiano del canale di Suez dovesse davvero precipitare nel caos – cui potrebbero contribuire una recrudescenza delle ristrettezze energetiche, delle provocazioni jihadiste e della violenza di regime – la sua crisi interesserebbe tutti noi. Americani compresi. Già una volta nella guerra fredda Washington è intervenuta per salvaguardare il collegamento tra Mediterraneo e Oceano Indiano. Non si vede perché non dovrebbe esserne nuovamente attratta.