Il fabbisogno mondiale di energia dipende in larga parte dalle fonti fossili, condizione che non si modificherà nel prossimo futuro. Nel World Energy Outlook 2016, l’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE) afferma che i combustibili fossili “continueranno ad essere l’asse portante del sistema energetico mondiale per diversi decenni a venire”. Il BP Energy Outlook formula previsioni similari. Tuttavia, questa dipendenza dalle fonti fossili ha dovuto affrontare numerose sfide negli ultimi anni: il forte calo dei prezzi del petrolio e del gas a partire da metà 2014; lo stabile aumento delle energie rinnovabili; gli impressionanti miglioramenti di efficienza energetica conseguiti; l’instabilità politica del Medio Oriente; gli stravolgimenti interni all’UE con l’abbandono della Gran Bretagna; l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo sul clima di Parigi.

Queste sfide rappresentano una seria minaccia per la sicurezza energetica mondiale. Nel 2011, l’AIE aveva adottato un’ampia definizione di sicurezza energetica che includeva tre dimensioni: diponibilità (geologica), accessibilità (geopolitica ed economica), accettabilità (ambientale e sociale). Le tensioni politiche in diversi paesi del Golfo Persico, del Nord Africa e nelle regioni del Corno d’Africa hanno di certo messo in crisi i cardini della sicurezza così intesa, incidendo criticamente sul libero flusso dei carichi di petrolio e gas in partenza da queste aree e diretti ai mercati globali. La criticità della situazione dipende anche dal fatto che i carichi via mare passano attraverso importanti chokepoints di transito, quali lo Stretto di Hormuz, il Canale di Suez e la collegata pipeline SUMED o Bab El-Mandeb, punti nevralgici del traffico marittimo ma allo stesso tempo vulnerabili alle numerose tensioni politiche dei paesi che vi si affacciano.

I chokepoint della penisola arabica

Fonte: EIA DOE

Considerato l’elevatissimo volume di petrolio che viene esportato dai produttori del Golfo Persico, lo Stretto di Hormuz è indubbiamente il più importante chokepoint al mondo. Nel 2016, secondo le stime dell’Energy Information Administration (EIA) statunitense, hanno attraversato lo stretto 18,5 milioni di barili di petrolio al giorno e più del 30% del GNL commercializzato a livello mondiale. Il passaggio di questi carichi è tuttavia minacciato dai molteplici sviluppi politici che stanno interessando l’area del Golfo Persico, tra cui la possibile crisi di successione in Arabia Saudita, la rivalità tra Riad e Teheran, le continue tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran per la questione nucleare, la recente disputa tra il Qatar e i vicini paesi arabi. È importante sottolineare che la libera circolazione di petrolio e gas è nell’interesse di tutte le parti coinvolte e nessuna di queste, almeno fino ad ora, ha minacciato di chiudere lo Stretto. Tuttavia, il sentiment dei mercati energetici mondiali può rapidamente cambiare anche solo in reazione ad una minaccia percepita, eventualmente condizionando l’andamento dei prezzi.

Non priva di criticità anche l’opzione Canale di Suez/pipeline SUMED, utilizzata per il transito di gran parte dei carichi di petrolio e gas che partono dal Golfo Persico e sono diretti in Europa e in Nord America. Nel 2016, 3,9 mil. bbl/g tra greggio e prodotti finiti hanno transitato per il Canale di Suez in entrambe le direzioni, secondo i dati rilasciati dalla Suez Canal Authority. In particolare, i flussi diretti a Nord sono aumentati di circa 300.000 bbl/g in un anno in ragione delle maggiori esportazioni di petrolio dall’Iraq e dall’Arabia Saudita verso l’Europa; al contrario, si sono ridotti quelli destinati a Sud – per la prima volta dal 2009 – a causa delle minori esportazioni di prodotti petroliferi dalla Russia verso il continente asiatico. Ammonta invece a 1,6 mil. bbl/g, il volume di greggio trasportato attraverso SUMED fino al Mar Mediterraneo, dove poi viene caricato in nave per il commercio via mare.

Negli ultimi anni, l’Egitto ha investito risorse significative per modernizzare ed espandere il Canale di Suez. Il problema, tuttavia, è più di natura politica – e quindi di instabilità dell’area – che non di adeguatezza degli investimenti. Dal 2011 ad oggi, l’Egitto ha vissuto due rivoluzioni e spodestato due presidenti. Le organizzazioni per i diritti umani ritengono che il regime attualmente in carica sia di gran lunga il più repressivo della storia moderna del paese. Al contempo, le autorità egiziane – considerate le critiche condizioni economiche interne - devono necessariamente avviare quella riforma economica che per lungo tempo è stata rimandata e l’implementazione di diverse iniziative ha provocato un aumento senza precedenti del tasso di inflazione. In sintesi, le instabili condizioni politiche ed economiche dell’Egitto minacciano la regolare circolazione dei carichi attraverso il canale di Suez/SUMED. Una sua chiusura comporterebbe, fra le altre cose, l’inevitabile passaggio delle navi dal capo di Buona Speranza, con un allungamento di quasi 2.700 miglia (circa 4.300 km) della rotta che dall’Arabia Saudita porta agli Stati Uniti.

Lo stretto di Bab El-Mandeb, anch’esso strategico in termini di volumi transitati (4,8 mil. bbl/g fra greggio e prodotti finiti), presenta analogamente diversi punti critici. Per diversi anni, la pirateria nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso ha minacciato il libero flusso e la sicurezza dei carichi di petrolio e gas. La tensione geopolitica tra Gibuti, l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia è stata motivo di seria preoccupazione. Alla radice di questi conflitti vi sono in primis le divisioni etniche e l’elevata instabilità politica ed economica della regione. Lo Yemen si trova sull’altra sponda dello Stretto. È il paese più povero del mondo arabo e diverse organizzazioni terroristiche hanno approfittato di questa condizione di deterioramento dell’ambiente economico e politico. Da marzo 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono coinvolti nella guerra civile interna che è già costata centinaia di migliaia di vittime. La guerra viene ampiamente vista come una sorta di “proxy war” tra Riad e Teheran che si fronteggiano indirettamente per avere l’egemonia sul paese. I combattimenti in Yemen e l’incertezza politica dell’area rappresentano una seria criticità per il regolare transito dei flussi di petrolio e gas attraverso lo Stretto.

La sicurezza energetica dell’Europa, ma più in generale del mondo intero, dipende dalla regolarità e continuità dell’export di idrocarburi. Pertanto, le minacce geopolitiche che riguardano questi importanti chokepoints devono essere affrontate con urgenza. L’Italia e altre importanti potenze europee hanno, ad esempio, esortato il Qatar e i paesi arabi limitrofi a raggiungere un compromesso, ponendo fine alla disputa che li ha visti recentemente coinvolti: disputa che poggiava, almeno formalmente, sull’accusa mossa da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo all’emirato qatarino di sposare la causa dei Fratelli Musulmani e di appoggiare gli stessi esplicitamente. Analogamente, i leader europei hanno avviato diverse iniziative per evitare il collasso dell’accordo sul nucleare con l’Iran, per investire nella stabilità economica e politica della Repubblica Islamica e per attenuare la rivalità tra Riad e Teheran. Ancora, l’Unione Europea - così come diversi singoli stati europei – è un importante partner commerciali dell’Egitto, nonché investitore. L’Europa ha sempre cercato di usare il suo peso economico per far pressione sul governo egiziano nella direzione di un maggior rispetto delle leggi sui diritti umani. Da ultimo, occorre invece uno sforzo maggiore per porre fine alla guerra in Yemen che, per diverse ragioni, ha ricevuto minor attenzione di quella siriana. La stabilità politica e la prosperità economica dell’area migliorerebbero drasticamente la sicurezza energetica dell’Europa e del mondo.