Nel meccanismo europeo di scambio delle emissioni (EU Emissions Trading System, “EU ETS”) ogni tonnellata equivalente di CO2 ha un prezzo e, di conseguenza, ogni quota venduta genera un ricavo. Quei proventi, secondo la logica originaria, dovrebbero alimentare la transizione energetica, finanziare efficienza, rinnovabili, trasporti puliti e sostenere le famiglie vulnerabili. Ma se a Bruxelles il principio è chiaro, nei bilanci nazionali la pratica è tutt’altro che lineare. L’Italia, in particolare, è oggi al centro di un dibattito acceso su ritardi e destinazione dei fondi.

Ma facciamo un passo indietro. L'EU ETS, attivo dal 2005 e attualmente nella fase 4 (2021-2030), stabilisce che ogni azienda obbligata al sistema (industria, aviation, shipping) sia tenuta a consegnare annualmente all’UE un numero di quote pari alle tonnellate equivalenti di CO2 emesse. Tali quote sono acquistabili sul mercato, con l’ETS che opera tramite un sistema di offerta che stabilisce annualmente un tetto massimo di quote di emissione (cap), il quale diminuisce progressivamente del 2,2% all'anno, incentivando così la riduzione delle emissioni di gas serra. Circa il 51,5% del cap è distribuito a titolo oneroso tramite aste, mentre il resto è allocato gratuitamente alle industrie ad alto rischio di "carbon leakage" (delocalizzazione della produzione). Le aste sono condotte su un’unica piattaforma ufficiale: l'European Energy Exchange (EEX), che gestisce vendite settimanali o bisettimanali delle quote. Dal 2013 il sistema ha generato oltre 230 miliardi di euro in proventi, di cui 38,8 miliardi solo nel 2024, grazie ai prezzi crescenti dei permessi di emissione.

I proventi delle aste sono distribuiti principalmente ai bilanci nazionali degli Stati membri, con quote dedicate al Fondo per l'Innovazione (per tecnologie low-carbon), al Fondo per la Modernizzazione (per 13 Stati a basso reddito) e, dal 2026, al Fondo Sociale per il Clima. La Direttiva ETS impone agli Stati membri di destinare almeno il 50% dei ricavi a scopi climatici ed energetici, requisito inasprito dal 2023 al 100% per supportare la transizione verde, inclusa la decarbonizzazione del trasporto marittimo e la biodiversità marina. Nel 2023 i ricavi complessivi delle aste ETS hanno raggiunto circa €43,6 miliardi, di cui circa €33 miliardi sono confluiti nei bilanci nazionali, con allocazioni principalmente a rinnovabili (43%), trasporti pubblici (23%) ed efficienza energetica (10%). La Commissione monitora l'uso attraverso rapporti annuali, promuovendo la trasparenza per evitare gli sprechi e massimizzare l'impatto sociale ed economico. Tuttavia, come avverte la European Environment Agency, “non tutti gli Stati membri forniscono dati completi o coerenti”.

In Italia, tra il 2012 e il 2024, le aste hanno generato 15,6 miliardi di euro, ma diverse analisi evidenziano la necessità di maggiore tracciabilità nella spesa pubblica. Secondo le elaborazioni di ECCO sulle rendicontazioni presentate dal nostro Paese alla Commissione Ue, solo il 9% di questi fondi sarebbe stato speso per misure di mitigazione climatica e transizione energetica. La restante parte risulta “impegnata” o “da assegnare”, spesso senza scadenze né indicazioni di utilizzo effettivo. Alcuni fondi sono stati reindirizzati verso capitoli generali del bilancio statale, come la copertura dei bonus energetici o interventi infrastrutturali non chiaramente connessi alla decarbonizzazione.  A questo si aggiunge una questione di tempi: parte dei fondi accumulati risale alle prime aste del 2012-2013, e a dodici anni di distanza una quota significativa non risulta ancora utilizzata.

Fonti ministeriali hanno attribuito i ritardi a vincoli di bilancio, complessità amministrative e lentezza nella definizione dei bandi. Il MASE sostiene che “tutte le somme sono destinate a politiche ambientali” e che l’utilizzo effettivo “richiede una programmazione pluriennale”. Tuttavia, la Commissione europea ha già sollecitato l’Italia, insieme ad altri Stati, a fornire report più dettagliati per il periodo 2023-2024, segnalando la mancanza di indicatori di risultato e di valutazioni sull’efficacia della spesa.

Il caso italiano, pur emblematico, non è isolato. Le analisi mostrano una forte eterogeneità nella prassi degli Stati membri: alcuni pubblicano report dettagliati e progetti finanziati, altri danno informazioni più aggregate o tardive. Paesi come la Germania e i Paesi Bassi hanno fondi dedicati (come il tedesco Klima- und Transformationsfonds) in cui confluiscono automaticamente le entrate delle aste ETS, rendendo tracciabile ogni euro. La differenza è sostanziale: dove il meccanismo è automatico e il monitoraggio pubblico, i fondi diventano leva politica e finanziaria per la transizione; dove mancano trasparenza e governance,rischiano di restare numeri nei bilanci.

L’ETS è spesso presentato come “la spina dorsale” della politica climatica europea, e i suoi proventi dovrebbero rappresentare il volto tangibile della transizione. Ma quando le risorse rimangono immobilizzate o disperse, il rischio è duplice: da un lato, si indebolisce la fiducia dei cittadini nel sistema del carbon price, dall’altro si perde l’occasione di accelerare gli investimenti green proprio quando servono di più. Come ricorda la Commissione europea nel Climate Action Progress Report 2024, «il valore dei proventi ETS non si misura solo in euro, ma in quanto contribuisce a ridurre le emissioni».  Per questo è importante che anche l’Italia trasformi un gettito potenzialmente strategico in politiche concrete, e non lasciare che miliardi di euro restino fermi nei conti pubblici (secondo quanto risulta dai report delle istituzioni europee). Il caso italiano – e le analoghe controversie in altri Stati – mostrano che la sfida della transizione non è solo tecnologica o finanziaria, ma soprattutto istituzionale. Per Bruxelles, la piena trasparenza sull’uso dei proventi ETS sarà la prova del nove della coerenza europea tra ciò che si tassa e ciò che si finanzia.