Le transizioni tra le epoche storiche sono spesso difficili da cogliere mentre avvengono, tuttavia è opinione diffusa che stiamo assistendo alla fine di una fase della storia mondiale e all'alba di una successiva.
A definirla, da un lato, è il cambiamento della politica estera degli Stati Uniti, sempre più unilaterali e distanti dai loro alleati, scettici nei confronti delle istituzioni e degli accordi internazionali, sempre meno disposti a sopportare i fardelli della leadership internazionale. Dall’altro, l’emergere di un rivale sistemico come la Cina e di una coalizione di potenze emergenti che cercano di scardinare un ordine internazionale ancora ancorato al dominio economico, finanziario e istituzionale degli Stati Uniti.
Una dimostrazione plastica di questo cambiamento si è avuta il 2 aprile in quello che il Presidente Trump ha definito il "Giorno della Liberazione", una sorta di processo di "rinascita economica" americana attraverso l’applicazione di un’ampia serie di tariffe doganali da cui non sono stati esenti nemmeno gli alleati: le esportazioni dell’Unione europea saranno soggette a dazi pari al 15%.
Tuttavia il peso dei dazi, non sembra in grado, direttamente, di incidere in modo significativo sugli esiti della transizione energetica europea, visto che per le cosiddette “tecnologie green” l’Europa dipende dalla Cina. A preoccupare sono piuttosto gli “effetti collaterali” dei dazi che possono compromettere gli sforzi di Bruxelles verso la neutralità climatica.
Se consideriamo quale punto di svolta il 2018, l'anno in cui Washington ha imposto dazi del 25% sulle importazioni cinesi, oggi ci troviamo in presenza di una nuova fase della guerra commerciale tra le due maggiori economie del mondo che ha il potenziale per interrompere le catene di approvvigionamento globali, aumentando i costi e provocando riallineamenti strategici.
Da quando è iniziata la guerra commerciale sino-americana, la Cina ha elaborato nuove strategie difensive e offensive per mitigare la sua vulnerabilità a tariffe e sanzioni. Niente di tutto ciò ha fatto la Commissione europea che si è cullata nell’illusorio rapporto privilegiato con Washington per quanto fosse facilmente ipotizzabile, in caso di rielezione di Trump, che vi sarebbero state significative ritorsioni da parte del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Le tensioni commerciali tra Pechino e Washington sono destinate a intensificarsi nei prossimi cinque anni con la Cina che perseguirà la sua strategia di imposizione di restrizioni all'esportazione di larga parte di quei metalli critici divenuti fondamentali non solo per le tecnologie energetiche ma anche per larga parte dei settori dell’industria manifatturiera e della difesa.
Con l'attuazione dei controlli sulle esportazioni il governo cinese ha scoperto un potente strumento di negoziato: il governo degli Stati Uniti ha approvato le spedizioni in Cina dei chip H20 di NVIDIA, precedentemente sospese. Conferma che l'approvazione facesse parte di negoziati commerciali più ampi sulle terre rare è arrivata sia dal segretario al Tesoro Bessent che dal segretario al Commercio Lutnick e dal fatto che AMD ha comunicato di aver ricevuto l'approvazione dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti per continuare a esportare i suoi chip MI308 in Cina.
Vittima collaterale delle restrizioni applicate dal Dragone cinese è stata anche l’industria europea. Il commissario europeo per il commercio Maroš Šefcovic ha fatto pressioni sul ministro del commercio cinese Wang Wentao per alleviare la carenza di componenti vitali, originariamente rivolta agli Stati Uniti, che sta rallentando le consegne per molti settori industriali europei, dalle automobili alle lavatrici. La giustificazione offerta da Pechino è che la burocrazia cinese sia stata inondata di domande provenienti da tutto il mondo per le licenze di esportazione e che sia stato difficile per loro individuare quelle a cui concedere approvazioni rapide. Una formula di comodo: è lecito attendersi che i funzionari cinesi utilizzeranno questi strumenti come leva coercitiva nei futuri negoziati.
Una delle principali sfide per raggiungere la sicurezza degli approvvigionamenti di metalli critici è interrompere la manipolazione dei mercati globali da parte della Cina, in base alla quale le aziende cinesi inondano il mercato con un eccesso di offerta, spingendo i prezzi a livelli che costringono vari settori della catena del valore in paesi come Canada, Australia, Stati Uniti ed Europa, a chiudere. Questo approccio non solo espone l’Occidente a maggiori vulnerabilità dell'offerta, ma anche rende difficile competere con la Cina alle attuali condizioni di mercato.
Tuttavia una recente iniziativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, DoD, offre un segnale chiaro della risposta che il settore privato chiede alle istituzioni. MP Materials ha annunciato la scorsa settimana una partnership pubblico-privata con il DoD volta ad accelerare lo sviluppo di una solida catena di approvvigionamento mine-to-market di magneti contenenti terre rare negli Stati Uniti. Non si tratta di una nazionalizzazione dell’industria delle terre rare sul modello cinese quanto di un accordo strutturale che comprende un investimento azionario di 400 milioni di dollari da parte del DoD, un prezzo minimo di acquisto del neodimio-praseodimio (NdPr) a 10 anni, un accordo di prelievo di 10 anni per il 100% dei magneti prodotti e un prestito di 150 milioni di dollari per espandere la separazione degli ossidi di terre rare a Mountain Pass.
La produzione dei magneti sarà realizzata dalla nuova azienda, "10X Facility", controllata da MP e finanziata con un prestito di 1 miliardo di dollari da parte di JPMorgan Chase e Goldman Sachs. 10X Facility produrrà 7.000 tonnellate di magneti al neodimio-ferro-boro (NdFeB) pari al 34% della domanda statunitense prevista nel 2028.
Il solo annuncio ha portato un brusco rialzo delle azioni di MP Materials aumentando la sua capitalizzazione di mercato di 2,5 miliardi di dollari.
Questo non significa che verranno azzerati, d’un colpo, i trent’anni di competenze sviluppate da Pechino nel settore e l’accordo in sé ancora non risolve i problemi geologici dovuti alla scarsità di disprosio e terbio negli ossidi di terre rare presenti a Mountain Pass, ma offre un possibile uso creativo e rivoluzionario delle norme occidentali, come il Defense Production Act (DPA), in risposta alle criticità dello sviluppo dell’industria mineraria.
Per l’industria mineraria il nemico sono il denaro e il tempo: si tratta di imprese costose e rischiose che richiedono spesso oltre vent’anni per raccogliere i frutti, esattamente quello che agli investitori non piace. Con l'aumento del costo del capitale, il mercato impiegherà del tempo per adeguarsi al rischio ma i finanziamenti pubblici possono attirare rapidamente capitali privati quando il mercato è lento e le esigenze di sicurezza nazionale sono pressanti.
Una cartina di tornasole in questo senso la offriranno anche i 47 progetti strategici finanziati dalla Commissione europea per dare seguito al Critical Raws Material Act.
Non c'è alcun segnale che la Cina porrà fine alla sua manipolazione del mercato, anzi si prevede che continuerà a sfruttare la sua posizione dominante per influenzare i prezzi, limitare l'offerta e frenare la concorrenza, tutti fattori che minano le iniziative per diversificare le catene di approvvigionamento e garantire l'accesso ai minerali critici. In aggiunta a questa sfida, i progetti al di fuori della Cina spesso devono promettere rendimenti maggiori per attirare finanziamenti, mentre le grandi aziende statali cinesi possono sostenere le operazioni con margini di profitto molto più bassi, o addirittura negativi.
Alla luce dell'uso aggressivo dei controlli sulle esportazioni da parte della Cina, la costruzione di catene di approvvigionamento per i minerali critici per l’Occidente è più cruciale che mai.
Tuttavia, questo non può essere fatto senza un intervento concertato, data la sovrapproduzione, che nel settore estrattivo si traduce in un eccesso di offerta, da parte della Cina. A causa della quota relativamente piccola del consumo globale di ciascuno di questi metalli da parte di ogni singolo Paese, - gli stessi USA rappresentano solo l'1,7% del consumo di terre rare, il 3,0% del gallio o il 13,6% del germanio-, risulta evidente come “nessuno si salva da solo”.
Ecco in questo senso l’imposizione dei dazi americani agli alleati potrebbe minare la fiducia necessaria a sviluppare una strategia tariffaria volta a influenzare i prezzi globali che necessariamente richiederebbe la collaborazione con altri paesi, produttori e consumatori chiave, tra cui Australia, Canada, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud e, naturalmente, Unione Europea.
La partnership pubblico-privata tra il Dod e MP Materials porta con sé un’altra e più ampia considerazione, tuttavia poco evidente: i costi dei metalli critici non hanno più importanza. L'autocompiacimento degli Stati Uniti e dell’Europa ha creato opportunità per i loro antagonisti e così i principi del libero scambio e il vantaggio comparativo, i benefici di una catena di approvvigionamento globale ora paiono appartenere ad un periodo storico che è terminato.



















