Per il settore petrolifero statunitense, il 2024 si annuncia un altro anno favorevole, destinato – secondo le ultime stime dall’Energy Information Agency (EIA) - a infrangere anche i record toccati nel 2023. Secondo i dati forniti dall’EIA, nei primi sei mesi dell’anno, la produzione è oscillata fra il 12.554 bbl/g di gennaio e i 13.249 di aprile, in linea con un trend ascendente iniziato a metà 2016 e che ha sperimentato un brusco tracollo (peraltro in linea con quanto accaduto a livello globale) solo fra la primavera 2020 e i primi mesi del 2021, nel pieno della pandemia COVID-19. Anche se i mercati sembrano dare qualche segnale di stanchezza, spingendo la stessa EIA a rivedere al ribasso gli outlook di prezzo per la seconda parte dell’anno, le stime di produzione sono indicate ancora in crescita, confermando, in questo, l’impressione degli osservatori, che rimane sostanzialmente positiva.
Tuttavia, il dato quantitativo racconta solo una parte della storia e lo scenario – oltre alle luci – presenta anche ombre difficili da nascondere. Se, da una parte, la domanda è stimata in crescita ancora almeno fino a dicembre, il parallelo aumento della produzione contribuisce a tenere basso il prezzo, accentuando i problemi finanziari delle compagnie, già provate dalle difficoltà degli scorsi anni. Le rigidità delle catene di fornitura e (soprattutto) del mercato dal lavoro, dove, già dai mesi della ripresa post-COVID, si segnala una significativa scarsità di personale specializzato, costituiscono un collo di bottiglia difficile da superare. Esiste, infine, una tensione di fondo fra la crescita del settore Oil&Gas (la seconda componente in misura minore rispetto alla prima) e la diffusa attenzione rivolta dalla politica e dall’opinione pubblica ai temi della sostenibilità, della transizione energetica e della ‘green economy’.
In questo campo, la posizione dell’amministrazione Biden è stata piuttosto ondivaga. Il suo mix di provvedimenti espansivi e restrittivi, se da un lato potrà forse contribuire, nel tempo, a ridurre le emissioni di gas a effetto serra e contenere la domanda di energia da fonti fossili, dall’altro ha favorito l’aumento delle trivellazioni e la crescita della produzione, con l’avvio di progetti destinati a impattare a lungo sulle dinamiche del settore. L’ambiguità di questa posizione è stata criticata sia dai movimenti ambientalisti (soprattutto per quanto riguarda le concessioni relative a territori federali), sia dall’opposizione repubblicana, che ha accusato il presidente di essere riuscito – allo stesso tempo – a legare le mani al settore estrattivo e a gestire in modo inefficiente le ricchezze del paese, impedendo lo sfruttamento di “enormi depositi di risorse minerarie sempre più scarse” e mettendo a rischio lo stesso “western way o life”.
Paradossalmente, il tema sembra, invece, rimanere sullo sfondo dell’attuale dibattito elettorale. In materia di politiche energetiche e ambientali, Donald Trump e Kamala Harris si collocano su posizioni opposte. Da vicepresidente uscente, Harris condivide larga parte della responsabilità per le politiche dell’attuale amministrazione; politiche che, nonostante le ambiguità, hanno messo gli Stati Uniti sulla strada della riduzione delle emissioni interne, soprattutto con miliardi di dollari in sussidi e crediti d’imposta erogati con l’Inflation Reduction Act. Sin dal primo mandato, Trump si è invece impegnato ad accreditare un’immagine da ‘paladino del petrolio’, ostentando scetticismo sul tema del cambiamento climatico, ridimensionando il sistema delle tutele ambientali, ritirando gli USA dall’accordo di Parigi sul clima e portando avanti una politica di aperto sostegno alla produzione nazionale di idrocarburi.
Anche se nessuno dei candidati ha ancora presentato una vera piattaforma in materia di ambiente ed energia, queste differenze riemergono dietro le loro dichiarazioni. Il “drill, baby, drill” rilanciato da Trump alla convention repubblicana di Milwaukee è un segnale chiaro della sua linea ‘continuista’, linea condivisa dal candidato alla vicepresidenza, J.D. Vance, secondo cui “una guerra alla tradizionale energia americana è una guerra all’American standard of living”. Di contro, la posizione di Harris (il cui candidato alla vicepresidenza, Tim Walz, ha un solido record di politiche ambientali implementate negli anni da governatore del Minnesota) appare più sfumata, con solo un esplicito rifermento contro la messa al bando dell’attività di fracking, in parte in linea con il carattere vago della sua proposta politica, in parte per il bisogno di mantenere il favore degli Stati industriali del c.d. ‘Blue Wall’.
Al di là della retorica elettorale, non sembra, dunque, che il voto di novembre possa modificare davvero lo status quo. Seppure con toni e accenti diversi, il sostegno al settore petrolifero appare comune ai due candidati, anche se un’eventuale amministrazione Harris potrà essere forse più condizionata dalle sensibilità ambientaliste del mondo democratico. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il margine d’azione del nuovo presidente dipenderà molto dalla costellazione di potere che uscirà dalle elezioni, dalla legittimazione popolare che queste gli attribuiranno e dagli equilibri che emergeranno fra la Casa Bianca e il Congresso, fra le due Camere e fra i due partiti maggiori. Come dimostra l’esperienza di questi anni, l’azione di freno svolta dal Congresso può essere, infatti, notevole e nemmeno una maggioranza ‘amica’ garantisce che la Casa Bianca possa sempre ‘portare a casa’ i suoi obiettivi politici e legislativi.