L’impianto del PNIEC ricalca per molti versi le versioni precedenti con la vistosa eccezione di riproporre il ritorno al nucleare come fonte di energia. Questo senza che ci sia mai stato alcun dibattito di merito, in un Paese che ha già bocciato il nucleare con due referendum. Ricordiamo che l’ultimo del 2011 era stato indetto dopo il Memorandum of Understanding siglato nel 2009 da Berlusconi e Sarkozy per installare in Italia quattro reattori EPR. Uno di questi, l’unico in costruzione in Francia a Flamanville dal 2007, sta per entrare in funzione forse in autunno, con un costo più che quadruplicato e oltre 12 anni di ritardo. Un fallimento di un progetto, lanciato nel lontano 1991, che ha portato EDF a modificare il reattore (EPR2).
Il PNIEC punta invece sui piccoli reattori modulari (SMR) - reattori con potenza al di sotto i 300MW - che dovrebbero ridurre i costi, semmai prodotti in modo industriale, modulare e assemblati in loco. Un’idea che ha almeno trent’anni, mai decollata: non esistono impianti operativi nei Paesi occidentali e i pochissimi prototipi in Russia e in Cina non producono elettricità.
Se si guarda al caso della NuScale, la startup americana che più ha lavorato a un progetto SMR (tecnologia convenzionale ad acqua pressurizzata), dopo oltre sedici anni di attività non ha mai costruito un primo prototipo e i suoi stessi finanziatori le hanno fatto causa per false comunicazioni sociali. I costi del progetto NuScale, infatti, già sulla carta avevano raggiunto i costi esorbitanti registrati per i due reattori della Toshiba-Westinhouse AP1000 di Vogtle negli USA, altro caso di fallimento economico del nucleare. Che si possano ridurre i costi del nucleare facendo piccoli reattori è un’affermazione mai dimostrata.
Peraltro, la stessa EDF ha recentemente abbandonato il suo progetto di SMR, il NuWard, ammettendone la irrealizzabilità, per concentrarsi su tecnologie provate. Cioè quelle che ha provato a sviluppare, senza successo, NuScale.
Quale piano può mai attribuire a una tecnologia industrialmente inesistente una quota significativa degli obiettivi da raggiungere? I 7,6 GW citati corrisponderebbero a cento reattori modulari tipo NuScale (da assemblare in gruppi). Sarebbe interessante sapere come e dove si installano, in un Paese che non ha mai risolto la gestione a lungo termine dei rifiuti nucleari. Senza parlare della piccola quota simbolica da fusione nucleare prevista al 2050, altra ipotesi del tutto indimostrata.
Come è indimostrata l’ipotesi di fondo assunta nel piano e cioè il fatto che un sistema basato interamente sulle rinnovabili e senza nucleare “è possibile ma non economicamente efficiente”, senza peraltro dare alcun riferimento di tale letteratura.
Il costo dell’elettricità da nuovo nucleare è da tempo ben superiore a quello delle rinnovabili (e, senza citare le stime come quella di Lazard, basti vedere il valore dello “strike price” concesso in UK alle diverse fonti), e siccome i costi degli accumuli industriali vanno scendendo, tanto che la California ormai ne fa un uso importante a servizio della rete, si tratta di un assunto arbitrario e indimostrato. È utile qui sottolineare le scelte della California e di altri stati nordamericani, di puntare decisamente su rinnovabili e batterie, in un contesto in cui lo shale gas ha costi ben inferiori del gas da noi.
Ciò che invece è chiaro, ed è in continuità con altre versioni del Piano, è la sottostima della quota delle rinnovabili per la produzione di elettricità (63% al 2030). Un piano serio sarebbe dovuto partire invece dalle proposte di scenario avanzate da Elettricità Futura – che al 2030 fissava un obiettivo dell’ordine dell’80% al 2030 – e semmai vedere come fare per ridurre le barriere burocratiche che tuttora frenano il settore. E che non sono risolte nemmeno dai recenti provvedimenti, come denunciato sia dalle associazioni industriali che da quelle ambientaliste.
Si prevedono obiettivi importanti sull’efficienza energetica, ma ancora una volta senza alcuna traccia di uno strumento per realizzarli né di risorse, peraltro nel contesto di un governo finora ostile alle normative europee per le case green. Come già in passato, anche nelle rinnovabili termiche si citano obiettivi sfidanti, ma senza alcun riferimento a strumenti e finanziamenti, e un apporto da pompe di calore ben al di sotto di quello che sarebbe necessario.
Nei trasporti nulla di nuovo, la quota di auto elettriche rimane marginale e si propone grande utilizzo dei biocarburanti a ricalcare, come per il CCS, il piano industriale di Eni, fortemente contestato da Greenpeace e ReCommon.
Peraltro, sui biocarburanti che oggi circolano anche l’EPA statunitense ha alzato l’attenzione per le truffe legate all’olio di palma da deforestazione (con elevata impronta carbonica) che viene spacciato per olio vegetale usato.
Siamo dunque alle solite: da una parte, le tecnologie già disponibili a costi competitivi e soprattutto scalabili, come le rinnovabili elettriche, vengono depresse rispetto alle stesse proposte dell’industria del settore; dall’altra, si introducono obiettivi senza strumenti né finanziamenti nei settori dominati dal gas e dalle fossili e si attribuiscono quote rilevanti a tecnologie inesistenti industrialmente come gli SMR (e si introduce persino un piccolo contributo dalla fusione) o di dubbia potenzialità, costi ed efficacia come il CCS.
Un piano che sembra proprio pensato per elettrificare il meno possibile nei settori dominati dai combustibili fossili (trasporti, riscaldamento) e rallentare l’espansione delle rinnovabili elettriche rispetto alle potenzialità espresse dalla stessa industria del settore. Un piano inadeguato che introduce soluzioni “magiche” come gli SMR.
Una inadeguatezza che appare pensata per proteggere il mercato del gas e far restare questa fonte saldamente al centro del sistema energetico. Procrastinando le necessarie scelte più radicali, parafrasando Draghi, non andremo da nessuna parte: né nella decarbonizzazione né nel dare una prospettiva di futuro economico al Paese.