Doveva essere l’estate dei prezzi superspike del petrolio e invece è stata l’estate del tonfo del Nikkei e dello scoppio della bolla sul carry trade dello yen. Prima di agosto erano in molti a prevedere che il prezzo del petrolio sarebbe salito oltre quota 90, spinto al rialzo dal consueto aumento della domanda estiva, dalla volontà dei paesi OpecPlus di tenere a freno la produzione e dai tamburi di guerra in Medio Oriente e Ucraina. Invece, nonostante l’indebolimento progressivo del dollaro nei confronti dell’euro, il Brent durante tutto il mese di agosto ha fatto fatica a difendere gli 80 dollari e adesso gli esperti sono convinti, con la stessa sicurezza, che presto il barile rivedrà quota 60. Tornando sui livelli di inizio 2021, cioè prima che iniziassero le vaccinazioni per il Covid 19, prima che la Russia invadesse l’Ucraina.
In realtà i fondamentali del mercato sono un po’ cambiati. Nell’ultimo Oil Market Report dell’Aie, le previsioni sulla domanda petrolifera mondiale per quest'anno e l'anno prossimo sono ancora in crescita, di circa lo 0,9%, stabilizzandosi a 102,99 milioni di barili giorno nel 2024 e a 103,94 milioni di barili giorno nel 2025. Troppo poco se si considera che nel mese di agosto scorso la produzione ha toccato i 103,53 milioni di barili giorno, nonostante gli extratagli volontari dell'OpecPlus.
Inoltre, dall'analisi della curva forward, quella cioè dei contratti a lunga scadenza, Morgan Stanley osserva un posizionamento simile a quello che si osserva quando si è in recessione. Dal canto suo, a inizio mese Goldman Sachs ha abbassato di 5 dollari l'intervallo previsto per i prezzi del Brent, portandolo a 70-85 dollari al barile, prevedendo minore domanda di petrolio dalla Cina, elevate scorte e crescente produzione di greggio shale negli Stati Uniti.
Non solo le banche d'investimento, ma anche i trader sono prudenti sul prezzo del petrolio: Trafigura consiglia cautela e prevede che il Brent scenderà nella fascia dei 60 dollari al barile, sempre a causa della debole domanda cinese di petrolio e dell'aumento dell'offerta non-OpecPlus. Anche Gunvor fa stime ribassiste per gli stessi motivi.
La settimana scorsa hanno fatto scalpore le dichiarazioni del grande esperto di commodity Jorge Montepeque, l’ex numero uno del Platts, colui che inventò il meccanismo di formazione dei prezzi di greggi e prodotti petroliferi, il quale in diretta da Shanghai mandava due messaggi terrorizzanti per il mercato del petrolio. Il primo: “la benzina è morta”, perché nella capitale economica cinese circa il 70% delle auto in circolazione è elettrica; il secondo: la crisi economica cinese è molto più massiccia di quanto raccontano i dati ufficiali.
Per prudenza, nei giorni scorsi gli otto paesi alla guida dell’OpecPlus (Arabia Saudita, Russia, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Kazakistan, Algeria e Oman), quelli che realmente governano l’offerta, hanno deciso di rinviare gli aumenti produttivi decisi in giugno scorso, posponendoli di due mesi. Richiamando al contempo i paesi più ribelli, Iraq e Kazakistan, al rispetto delle quote assegnate e a stabilire un piano di rientro dei volumi in eccesso immessi sul mercato. Alla comunicazione della decisione il prezzo del petrolio è andato ancora più giù: la mossa della “cupola” dell’OpecPlus è stata interpretata come un adeguamento imposto dal mercato, non come una libera decisione. Come se la paura di una recessione mondiale e dei suoi effetti fosse condivisa anche dai paesi al vertice dell’OpecPlus.
Recessione o no, elementi di preoccupazione permangono anche sul lato dell’offerta. In Libia la guerra civile ha nuovamente bloccato i flussi di petrolio; il 21 agosto scorso fa gli Houti hanno attaccato una petroliera greca nel Mar Rosso, lasciandola vagare in fiamme per giorni, a dimostrazione del fatto che il transito attraverso il canale di Suez non è affatto sicuro; la stagione degli uragani in Usa è appena cominciata e potrebbe rallentare gli scambi di greggi e prodotti dagli Usa all’Europa.
Infine, sullo sfondo, resta il problema degli investimenti upstream, che secondo l’Aie andrebbero limitati agli affari correnti, mentre secondo l’Opec occorrerebbero trilioni per soddisfare la crescita della domanda petrolifera negli anni a venire. In questa ormai tediosa polemica, sempre durante questa contraddittoria estate ormai agli sgoccioli, si inserisce ExxonMobil, che nel suo ultimo rapporto mondiale, ha lamentato la scarsità degli investimenti upstream. Un pericolo perché la domanda di petrolio - secondo le previsioni della major delle major - resterà sopra i 100 milioni di barili al giorno almeno fino al 2050, nonostante il funerale della benzina a Shanghai.