“Nessun vento è favorevole al marinaio che non sa in qualche porto vuole andare”. Questa citazione di Seneca è una delle mie preferite e penso rappresenti bene la situazione delle rinnovabili nel nostro Paese e possa perciò esserci di aiuto in questa breve riflessione.

La navigazione, soprattutto ai tempi di Seneca, era affare assai complesso e rischioso che richiedeva continuamente la capacità di adattarsi al cambiamento di contesto (un fortunale improvviso, una corrente inattesa, …) e di compiere scelte a volte difficili, giacché il vento “perfetto” non esiste così come non esiste “la” rotta, ma sono potenzialmente infiniti i percorsi (più corti o più lunghi, più veloci o più lenti, più sicuri o più rischiosi) che ci portano alla meta.

Quali sono allora le scelte che dobbiamo oggi affrontare nel mondo delle rinnovabili in Italia per disegnare la nostra rotta? Ne ho identificate 4 principali, che proverò qui a riassumere, indicando ovviamente anche verso quale “porto” sto immaginando di dirigere la nostra nave.

Partiamo dall’assunto (il primo “punto fermo” del nostro porto) che senza impianti di grande taglia non è possibile raggiungere l’obiettivo di installazione dei 9-10 GW di rinnovabili l’anno indispensabili per arrivare al target che l’Italia stessa si è data con il proprio PNIEC. A questo punto è indispensabile arrivare ad un compromesso che preveda l’utilizzo di parte del suolo agricolo disponibile nel Paese (circa 16 milioni di ettari, considerando sia quello utilizzato che soprattutto quello non utilizzato) che ha naturalmente le caratteristiche (per posizione e conformazione) più adatte per ospitare gli impianti. Quanto e dove spetta al marinaio deciderlo, ma basti sapere che ne basterebbe qualche punto percentuale (1,25%) per superare i 100 GW di installazioni.

Immaginiamo poi (secondo “punto fermo”) che si voglia garantire a chi effettua un investimento per la transizione energetica del Paese una equa (non speculativa) remunerazione del proprio capitale. Secondo l’analisi fatta nel nostro Renewable Energy Report 2024, l’LCOE (ossia il costo di produzione dell’energia che deve considerarsi di riferimento per l’investimento) per il fotovoltaico di grande taglia si attesta tra i 65 e gli 80 €/MWh, mentre per l'eolico sale tra i 90 e i 100 €/MWh (e fino ai 150-180 €/MWh per gli impianti offshore galleggianti). Diventa indispensabile quindi scegliere un valore d’asta per le rinnovabili (che altro non è che un modo per ridurre il rischio dell’investimento a livello accettabile per l’investitore) che sia coerente con quanto sopra, oppure intervenire sulle storture procedurali (tempi delle autorizzazioni e relativi costi di sviluppo del progetto e di acquisizione dei terreni) che fanno sì che in Italia il peso di queste componenti sia attorno al 40% dl totale dell’LCOE, più del doppio di quello che si registra nel resto d’Europa (dove non a caso gli LCOE sono inferiori).

Prendiamo poi per buono (terzo “punto fermo”) che si voglia avere una distribuzione territoriale degli impianti che sia ovviamente coerente con la disponibilità di “materia prima”, ma che si porti anche dietro una coerente crescita delle infrastrutture di trasmissione e dei sistemi di stoccaggio energetico indispensabili per rendere efficiente (e sicuro) il sistema elettrico nazionale. È assai improbabile, o almeno questo il mio parere, che questo equilibrio si raggiunga nel libero mercato, perché troppi e troppo diversi gli attori e gli interessi in gioco. Bisogna scegliere quindi secondo il principio – con una parola tanto vituperata ma che a me continua invece a piacere – del burden sharing dove e cosa fare, definendo con chiarezza delle “zone di mercato” all’interno delle quali poi lasciare la libertà di manovra agli operatori economici e, se del caso, prevedendo anche forme di re-equilibrio delle risorse. Ed è un tipo di scelta che va ben oltre il meccanismo, peraltro annacquatosi negli obiettivi e trasformatosi quasi nel suo opposto col passare del tempo e delle revisioni, delle “aree idonee” e che forse richiede anche di mettere in discussione il mantra della “neutralità tecnologica”, a favore di una pianificazione “zonale” che contemperi produzione, stoccaggio, trasporto e consumo potenziale di energia.

Interroghiamoci infine sull’ultimo “punto fermo” del nostro porto, ovvero la decarbonizzazione del sistema energetico. Le scelte qui sono ancora più complesse, perché riguardano l’insieme delle tecnologie che ci possono portare alla meta e che nel frattempo si è modificato. Che ruolo – concreto – deve avere l’idrogeno (soprattutto se “verde”) nel nostro Paese? E quale, e quanto, e dove è necessario inserirlo nel mix energetico nazionale? Che ruolo – non posso ovviamente tacerlo – può avere il nucleare nel nostro Paese? Ribadendo bene che la scelta da prendere non è qui solo quella “banale” (ovviamente tra virgolette) dell’inserirlo o meno nel mix, bensì quella davvero essenziale relativa al ruolo da dargli. Può il nucleare sostituire in tutto il Paese la “riserva” di turbogas, ossia della quota di produzione energetica che, semplificando un poco, dobbiamo garantire sempre disponibile? Oppure, all’estremo opposto, può essere la soluzione per il Nord, che ha meno possibilità di produzione da solare o da eolico? È evidente come questa scelta influenzi a cascata tutte le precedenti, così come quelle precedenti creino le condizioni entro le quali operare quest’ultima.

È legittimo allora chiudere questa breve riflessione con due domande.

Siamo sicuri che i quattro “punti fermi” che ho delineato (impianti grandi, economicamente sostenibili, correttamente distribuiti e decarbonizzati) siano davvero condivisi e che quindi si possa immaginare “il porto” verso cui dirigersi? La risposta negativa a questa domanda è la più pericolosa, perché rimette in discussione tutto il resto, ma sono convinto che non sia questo il nostro caso.

Quale rotta vogliamo seguire? Perché è davvero ora giunto il momento che il marinaio si pronunci e prendendo quelle scelte non lasci la nave in balia dei venti.

Qualunque esse siano saranno comunque da guida anche per tutti gli attori del sistema. Evitiamo invece che, per aver trascurato nell’attesa di decidere la rotta e lo scrutare l’orizzonte, si faccia la fine del Titanic.