In occasione di OMC, Assorisorse e RiEnergia hanno organizzato due pomeriggi di interviste ad autorevoli esperti del mondo dell’energia. I talk show sono stati divisi per argomenti; durante la prima giornata si è parlato dei diversi pezzi che compongono l’articolato puzzle della transizione energetica. Ne abbiamo parlato con Andreas Kipar, ponendo l’accento sull’evoluzione delle infrastrutture legate agli approvvigionamenti energetici e sulla loro necessaria integrazione con i territori. Un problema antico, dalle dighe alle miniere di carbone, dalle centrali elettriche agli impianti petroliferi e, oggi, dall'eolico al fotovoltaico.

 La transizione energetica coinvolge una molteplicità di aspetti, non ultimo la trasformazione dei territori. Negli anni, il processo di decarbonizzazione ha richiesto nuove tipologie di infrastrutture di approvvigionamento, incidendo sulla geografia dei luoghi e quindi modificando le esigenze dei territori, molto più evolute di un tempo.

 Si è cominciato a parlare di paesaggio come infrastruttura ecologicamente intatta ed esteticamente stimolante circa trent’anni fa durante la profonda trasformazione dei territori del bacino industriale della Ruhr. Da allora, i cambiamenti sono stati numerosi e altrettanti ci attendono, siano essi guidati dalla transizione o dettati dal clima che, modificandosi, diventa sempre più pericoloso.

 Risulta quindi urgente definire nuovi criteri per la realizzazione di un paesaggio produttivo, che sappia mettere in relazione le nuove esigenze etiche generate dal cambiamento climatico, dalla crisi energetica, dalla guerra, dalla transizione ecologica: il tutto in una dimensione estetica.

L’impegno deve quindi essere orientato verso la definizione di un paesaggio energetico in cui le diverse infrastrutture – di stoccaggio o di produzione delle diverse fonti di energia – non vengano nascoste ma considerate come autentici attrattori, assi portanti di una nuova era in continua evoluzione.

 Un tale cambiamento presuppone un atteggiamento collaborativo da parte della popolazione locale, molto lontano da quella sindrome Nimby (Not in my backyard) che da tempo accompagna ogni nuova e vecchia opera infrastrutturale. L’accettazione di questa trasformazione da parte dei cittadini deve passare attraverso una nuova narrazione in cui il paesaggio non ha limiti né confini e diventa la piattaforma moderatrice dei nuovi processi di sviluppo, attraverso l’unione di architettura, cultura e natura.