Il conflitto in corso in Medio Oriente ha già avuto le prime ripercussioni sui mercati globali del petrolio e del gas e la stessa sicurezza delle infrastrutture regionali é mesa seriamente in discussione. L'aumento giorni del 5% nei prezzi del Brent è un primo chiaro segnale della preoccupazione dei mercati riguardo all'instabilità nella regione. Si tratta, però, di un aumento ancora molto contenuto ed è evidente che, qualora il conflitto dovesse ulteriormente espandersi nella regione coinvolgendo altri attori come l'Iran, le ripercussioni sui mercati sarebbero ben più pesanti e rovinose. Il coinvolgimento di Teheran – ipotesi non così peregrina - influenzerebbe negativamente l'approvvigionamento globale di petrolio, provocando un   aumento dei prezzi a livello internazionale.

La reazione iniziale dei prezzi del greggio è ben lontana da quella seguita all’embargo del 1973. Al momento attuale, infatti, gli spettri della crisi energetica di quegli anni sono ancora lontani: non vi é alcuna coalizione di paesi arabi che attacchi compattamente Israele, nessun embargo petrolifero nei confronti dell'Occidente, né barili a rischio nel Canale di Suez o nello Stretto di Hormuz. Nel 1973, la domanda di petrolio cresceva inarrestabile e non c'era quasi spazio per aumenti della produzione dominata dall'OPEC. Nell’attuale contesto energetico globale, invece, il peso dell’OPEC è stato eroso dal fracking americano e la domanda cresce lentamente e in modo incerto di fronte agli imperativi della transizione energetica.

D’altro canto, però, merita rilevare alcuni effetti diretti scaturenti dagli eventi bellici degli ultimi giorni che hanno  danneggiato le operazioni di estrazione di alcuni dei principali giacimenti della regione dissolvendo  il cauto ottimismo seguito all’autorizzazione del governo israeliano - nel giugno 2023 - per lo sfruttamento dei giacimenti di gas sulla costa di Gaza. E, infatti, è recentissimo l'annuncio di Chevron in merito all'interruzione della produzione nella piattaforma offshore del giacimento di Tamar posto a trenta chilometri al largo delle coste israeliane. Resta, invece, operativo il più grande giacimento marittimo israeliano,  il Leviathan, che non ha mai interrotto le sue attività di sfruttamento.

Se, dopo le importanti scoperte nel Mediterraneo orientale negli anni 2010 con i giacimenti Tamar e Leviathan al largo delle coste di Israele, il giacimento Aphrodite al largo di Cipro e il giacimento Zohr in Egitto, il gas naturale veniva considerato come un possibile vettore per la cooperazione e la pacificazione del Bacino, il nuovo scenario geopolitico mette in luce quello che è, a tutti gli effetti, il fallimento della cosiddetta Diplomazia del Gas. Nei fatti, gli accordi sul gas firmati tra Israele e altri paesi della regione non hanno contribuito a risolvere le ataviche tensioni politiche.

Inoltre, l’intervento militare di terra israeliano e il prevedibile scenario di molteplici vittime civili nella Striscia di Gaza aumentano l’impopolarità di questi accordi e il loro costo politico, nonché l’attrattiva di una narrativa a favore di una diplomazia del gas naturale basata sul pragmatismo e sugli interessi commerciali condivisi nella regione. Nel caso del gas sulla costa di Gaza, è altamente improbabile che il suo sfruttamento si concretizzi a breve termine, ritardando indefinitamente la sua attuazione e il suo impatto positivo sulla popolazione palestinese. Il nuovo contesto di instabilità aumenta i rischi geopolitici associati allo sviluppo commerciale di tutti i progetti estrattivi e le infrastrutture di trasporto del gas naturale nella regione, che è in passato è già stata vittima di sabotaggi nella penisola del Sinai da parte di gruppi islamici ribelli.

La riduzione dei flussi di Israele si aggiunge a quella dell’Egitto che, già dall’estate, ha sospeso le esportazioni di gas naturale a causa dell’aumento della domanda interna di elettricità. Il che, alle porte dell’inverno, con la guerra in Ucraina ancora in evoluzione,  si teme possa avere effetti sul prezzo del gas simili a quelli 2022. I futures del gas in Europa (TTF) hanno già reagito superando di nuovo la soglia dei 50 €/MWh, il livello più alto da metà giugno.

Il mercato del gas naturale è attualmente più fragile di quello del petrolio a causa della carenza di approvvigionamento globale e soprattutto vista la prossimità della stagione di riscaldamento nell’emisfero settentrionale. E, seppur il mercato petrolifero potrebbe essere fortemente influenzato nella misura in cui l’Iran adotterà un ruolo più attivo nel sostenere Hamas, il mercato del gas si trova ad affrontare uno scenario più complesso.

 A complicare ulteriormente il quadro e a rendere nervoso il mercato, gli imprevisti lavori di manutenzione degli impianti in Norvegia, principale sostituto della Russia come fornitore di gas per il resto d'Europa, gli scioperi in Australia dei lavoratori di alcune aziende esportatrici di GNL e l'annuncio del governo finlandese di aver individuato una perdita nel gasdotto Balticconnector, che collega l’Estonia con la Finlandia. In quest’ultimo caso non è la perdita in sé a preoccupare, visto che la condotta non ricopre una vitale importanza per gli scambi gas, quanto la causa di essa. Qualora, infatti, fosse riconducibile a un sabotaggio deliberato, si solleverebbero serie preoccupazioni per la sicurezza energetica europea evidenziando la potenziale vulnerabilità di altre infrastrutture.