La minaccia di un’escalation di violenze tra Israele e Hamas ha fomentato nuove fibrillazioni nel già fragile ordine internazionale. Le cancellerie in tutto il mondo rivalutano attentamente i propri allineamenti diplomatici e strategici alla luce del mutato quadro mediorientale, distogliendo l’attenzione di policymakers e analisti da altri scenari di rilevanza globale come l’invasione russa dell’Ucraina. Nel frattempo, attraverso il fragore dei bombardamenti sulla Striscia di Gaza e al confine tra Israele e Libano si può nuovamente udire l’eco dell’incertezza che ha caratterizzato per tutto il 2022 i mercati energetici.
Una serie di onde sismiche si diramano dal Medio Oriente, confondendosi con altre turbolenze internazionali, rimescolando le carte della diplomazia internazionale e influendo sull’assetto della geopolitica, assunta ormai come fattore critico nelle decisioni strategiche dei board delle multinazionali. La crudele determinazione di Hamas ha riportato la questione palestinese, e con ancor più precisione quella di Gaza, sotto i riflettori del mondo. Sabato 7 ottobre, centinaia di miliziani hanno valicato i confini imposti e messo in pratica un’azione organizzata nei minimi dettagli, la quale ha richiesto mesi di preparazione, un’intelligence di prim’ordine e possibilmente la mano oscura di potenze straniere.
A marcare per sempre il giorno come il peggiore nei 75 anni di storia di Israele vi sono oltre 1.300 persone uccise, due centinaia di ostaggi nella Striscia di Gaza, molti dei quali stranieri, e un intero Paese che ha perso la propria aurea di invincibilità. Un governo di unità nazionale dovrà quindi affrontare una crisi senza precedenti, dopo mesi di proteste contro le riforme del Primo Ministro Netanyahu. Oggi le voci critiche attaccano la leadership di fronte al fallimento dimostrato dai servizi di sicurezza, lasciando il fianco scoperto ad Hamas.
In questa fase, Israele è di fronte a due rischi principali. Da una parte, la crisi politica interna minaccia di far cavitare su sé stessa una già fragilissima democrazia, allontanandola dai modelli occidentali e consolidando una crescente militarizzazione della società. Dall’altra, l’annunciata ed imminente guerra di Israele per eradicare completamente Hamas da Gaza fa temere che il conflitto divampi in Medio Oriente, coinvolgendo attori primari in campo energetico, come l’Iran o, per via indiretta, tramite un blocco dello Stretto di Hormuz o improvvide azioni di ribelli locali, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait e Qatar. Sino ad ora, i mercati paiono aver scommesso su di una risoluzione politica della vicenda e la volatilità del greggio è stata contenuta dalla strada tuttora aperta della diplomazia.
Il mondo arabo ha risposto con sdegno all’uccisione di civili palestinesi e ha puntato inequivocabilmente il dito contro Israele per aver alimentato il radicalismo di Hamas. Eppure, le posizioni dei paesi regionali non potrebbero essere più eterogenee. Gli Accordi di Abramo del 2020 hanno infatti riconfigurato il quadro dei rapporti tra Israele e alcuni importanti attori regionali, come gli Emirati Arabi Uniti (EAU), i quali hanno condannato gli attacchi, generati da un estremismo anch’esso fonte di pericoli per la monarchia del Golfo.
Non per questo gli EAU possono ritenersi esclusi dalle implicazioni del conflitto. L’investimento dell’emiratina ADNOC insieme al gigante BP nei giacimenti gassiferi offshore di Israele affronta oggi molteplici quesiti di sostenibilità politica ed economica, viste le ripercussioni interne che provocherebbe la prima acquisizione emiratina di un grande giacimento produttivo internazionale in uno Stato che intende portare una guerra senza quartiere in una delle aree a maggiore densità di popolazione al mondo.
D’altra parte, la produzione gassifera di Israele è diventata sempre più strategica per il bilanciamento dei consumi regionali. La possibilità che le infrastrutture per produzione e trasporto di gas nella Zona Economica Esclusiva vengano coinvolte nella guerra ha costretto le autorità a imporre uno stop ad una parte cospicua della produzione nazionale, sospendendo l’esportazione di gas verso l’Egitto. Questo rimane uno degli elementi fondanti del riavvicinamento tra Gerusalemme e Il Cairo, mentre il governo egiziano teme un’ondata di profughi nel Sinai e intende evitare in qualsiasi modo una destabilizzazione interna. L’improvviso stop al commercio di gas, che rimane alla base di futuri progetti per l’export dal Mediterraneo Orientale verso l’UE, ha nel frattempo impresso una nuova impennata all’indice TTF di Amsterdam.
Il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita è giunto ad un vicolo cieco, il che però non significa necessariamente che in futuro non si presenteranno nuove opportunità. Per il momento, il ruolo di Arabia Saudita e EAU sarà fondamentale anche per anticipare eventuali ripercussioni della guerra sul mercato petrolifero. Insieme, infatti, le due monarchie del golfo guidano OPEC e ne coordinano le decisioni principali con la Russia, tramite l’Alleanza OPEC+, ma al momento rimane assai remota l’ipotesi di un embargo che ricordi quello del 1973.
Allo stesso tempo, Israele rimane totalmente dipendente da importazioni petrolifere estere e ha incamerato negli anni volumi consistenti di petrolio dal Kurdistan iracheno a buon prezzo. La recente vicenda che ha visto interrompere i flussi di greggio tra Iraq e Turchia ha fatto perdere ad Israele un importante fornitore politicamente autonomo nella regione. Ciò ha anche costretto il Paese a diversificare le importazioni, guardando ad esempio alla Russia. L’estrema dipendenza di Israele dal contesto petrolifero regionale potrebbe divenire un fattore immediatamente rilevante nel caso in cui le tensioni dovessero aumentare.
Gerusalemme ha ricevuto il benestare di Unione Europea e Stati Uniti, seppure con alcuni, importanti, distinguo, a reagire, infliggendo pesanti bombardamenti su Gaza che hanno provocato in pochi giorni quasi 3.000 morti e circa 10.000 feriti, la maggior parte di questi semplici cittadini palestinesi. Sappiamo che il Presidente americano Joe Biden sarà oggi a Tel Aviv, dove incontrerà Netanyahu. È stato, invece, annullato all’ultimo il vertice di Amman, con la leadership di Egitto, Giordania e Palestina, in seguito all’orrenda distruzione dell’ospedale di Gaza city.
Biden intende, tramite un viaggio che ricorda simbolicamente quello compiuto a Kyiv alle soglie dell’importante controffensiva contro le truppe russe, evidenziare il supporto verso Israele, ma anche presentare i numerosi rischi che comporterebbe un’occupazione israeliana di Gaza. Il Presidente americano vorrebbe convincere Netanyahu a non perseguire questa opzione, cercando strade alternative. Una visita che però potrebbe arrivare troppo tardi ed essere incapace di incidere su processi politici già in atto.
I segni di un repentino cambiamento nella narrazione del conflitto davanti agli orrori dei morti civili e il rischio di polarizzazione e ulteriore radicalizzazione, inclusa nella popolazione della Cisgiordania, incombe sul dialogo tra le parti. La diplomazia rimane incline ad una risoluzione che limiti quanto più possibile l’intervento dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Le popolazioni dei paesi mediorientali rimangono invece ancorate su posizioni apparentemente irriconciliabili con quelle dei propri governanti.
Ecco perché la spirale di violenza in Medio Oriente dovrebbe essere interrotta quanto prima, evitando che drammatici e imprevedibili risvolti del conflitto armato limitino le scelte a disposizione dei governi, gettando nel caos una regione da sempre ritenuta snodo strategico per la geopolitica dell’energia.