In queste settimane Autostrade per l’Italia celebra al MAXXI di Roma i cento anni dalla costruzione della prima autostrada italiana. L’autostrada non è solo un’infrastruttura: è il filo che intreccia modernità e memoria, connettendo luoghi, imprese, persone e storie.
Con gli slanci eroici del Novecento, l’accelerazione produttiva del dopoguerra, gli scenari ecosostenibili del futuro, la mostra è un invito a riscoprire l’Italia come l’hanno immaginata e vissuta nel corso delle varie epoche milioni di viaggiatori.
Quell’idea di futuro resa possibile con l'Autostrada del Sole. Con i suoi 755 chilometri costruiti in solo 8 anni, costituisce non solo un record ingegneristico che contribuì a proiettare l’Italia nel boom economico e a farne un benchmark internazionale in termini di competitività e sviluppo, ma proprio in questi momenti di celebrazione, rappresenta un inevitabile termine di confronto con quanto è poi accaduto nei decenni successivi.
Dal 1990, infatti, gli investimenti sono diminuiti del 35%. Da allora la rete autostradale spagnola è cresciuta del 171%, mentre quella italiana solo del 7%, e i chilometri a due corsie sono pressoché invariati dal 1980.
Se a questi dati aggiungiamo che le patologie burocratiche e le distorsioni del sistema si sono aggravate nell’ultimo decennio, con 120 modifiche del Codice degli Appalti; che l’equazione costi-benefici di un’opera infrastrutturale pende a favore esclusivamente dell’impatto ambientale senza valutarne i ritorni in termini economici per la collettività; che i reiterati fatti di corruzione alimentano la disaffezione della pubblica opinione e impediscono un’analisi corretta degli investimenti da programmare e attuare, si capisce chiaramente come mai un settore da sempre ritenuto strategico per garantire la spinta essenziale per il rilancio del Paese sia stato di fatto estromesso dall’agenda della politica per molti anni.
Dal 1992 in poi, infatti, l’approccio generale della politica al tema infrastrutture è stato quello di creare consenso nel breve termine, evitando di investire sulle strategie di lungo periodo per promuovere la partecipazione dei cittadini, e quindi la percezione positiva di un’opera.
In Italia, anche per questa disattenzione della politica, si è consolidata negli ultimi trenta anni la tendenza a dire no, un trend che ha condizionato fortemente i comportamenti dei rappresentanti istituzionali, affannati a inseguire gli istantanei umori e a sostenere i timori delle masse.
La conseguenza è che le istituzioni continuano a prendere o annunciare decisioni tattiche per capitalizzare un rapido quanto effimero consenso, spesso coagulato intorno al no alle infrastrutture, invece di individuare un indirizzo strategico di lungo periodo, che possa agevolare nei cittadini la percezione positiva di un’opera.
Uno degli effetti della pandemia prima e dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente è stato invece quello di accelerare l’ingresso delle infrastrutture, digitali e materiali, nell’agenda delle istituzioni, e la consapevolezza che l’energia sia un tema decisivo per la tenuta delle famiglie e la crescita delle imprese. L'Italia nel 2020 era al diciannovesimo posto tra i Paesi UE per grado di sviluppo delle connessioni, e la rete fissa a banda larga copriva meno di un quarto delle famiglie contro il 60 per cento della media europea.
Le infrastrutture in condizioni di crescente efficienza e di rispetto dell'ambiente sono essenziali per l'ammodernamento del sistema produttivo e per migliorare la qualità della vita. Disinvestire nell’ultimo decennio nelle infrastrutture è costato ogni anno al nostro Paese almeno un punto di PIL (60 miliardi all’anno).
Oggigiorno, gli investimenti infrastrutturali sono collegati in modo così evidente allo sviluppo dell’energia e quindi alla conservazione dello sviluppo industriale e sociale del Paese. Di conseguenza, un fattore più degli altri sarà sempre più decisivo per colmare il gap infrastrutturale dei territori italiani: la capacità della politica di investire culturalmente sulle opere, imparando a comunicare ai territori il valore strategico delle infrastrutture.
Se non si riuscirà nella delicata operazione di disinnescare questa esasperata conflittualità che da quasi trenta anni caratterizza in tutti i territori italiani il rapporto tra la conservazione dell’ambiente e la realizzazione di nuovi investimenti (dal referendum sul nucleare del 1987 in poi è stato tutto un fiorire di no, con i recenti casi emblematici del Tav e del Tap), il Paese difficilmente farà quella accelerazione che i veti ideologici non possono più impedire.
Il futuro del Paese passa da una nuova stagione di investimenti sulle infrastrutture, che superi finalmente la demonizzazione del privato e di tutto quello che deriva dal sistema industriale.
Lo hanno compreso benissimo importanti società del Paese come Eni, Snam, Enel e Terna, che da anni hanno investito in modo capillare sulle relazioni istituzionali e sulle azioni di advocacy, per agevolare il dialogo con i territori, arrivando a discutere con i cittadini e i comitati della modifica o della conservazione di un progetto.
Bisogna ripartire da queste buone pratiche, che non solo costituiscono un’eccellenza nel nostro sistema istituzionale, ma la sola strada possibile per connettere l’Italia alla contemporaneità.