37,5 miliardi di tonnellate. Basterebbe la cifra delle emissioni di CO2 nel 2022, record storico, per capire che le tecnologie di rimozione del carbonio non rappresentano solo una delle opzioni da considerare, ma costituiscono un imprescindibile tassello della decarbonizzazione. Siamo decisamente fuori rotta rispetto agli obiettivi di neutralità carbonica di metà secolo. Questo nonostante nelle economie avanzate, in particolare l’Europa, la quale contribuisce con circa 8% al bilancio mondiale delle emissioni, i decisori politici come i ludopatici spinti a fare puntate sempre più alte, alzano il livello degli obiettivi di decarbonizzazione contestualmente al mancato raggiungimento di quelli fissati in precedenza.

Due i punti da tenere a mente per una transizione energetica credibile e ordinata. Il pianeta è un condominio globale dove la concentrazione dei gas serra è democraticamente distribuita a tutte le latitudini. Le politiche climatiche dovrebbero essere globali ma senza seguire il criterio della “taglia unica”. Scegliere selettivamente le misure di abbattimento delle emissioni in funzione delle economie dove l’intensità carbonica per unità di PIL è più elevata, in relazione al mix delle fonti che coprono gli usi finali di energia, in funzione della struttura produttiva. Al fine di intervenire dove l’abbattimento di una tonnellata di CO2 ha il costo marginale più contenuto, avviene più rapidamente e con minori ripercussioni sociali.

La portata dell’emergenza climatica esige un approccio olistico seguendo il principio di neutralità tecnologica. Non solo serve un arsenale di tecnologie pulite: rinnovabili, biocombustibili, idrogeno, nucleare, geotermia, termovalorizzazione dei rifiuti, efficienza energetica e cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), ma serve dispiegarle su larga scala privilegiando ogniqualvolta la tecnologia più funzionale al contesto. La sfida è tanto più difficoltosa quanto il cambiamento climatico dipende dall’accumulo di emissioni riversate nei secoli e non dal ritmo delle emissioni aggiuntive. Con l’aggravante del fenomeno che il climatologo Hans Joachim Schellnhuber ha definito la maledizione delle politiche climatiche, ovvero gli effetti si manifestano troppo tardi per intervenire per tempo.

In un mondo in cui i consumi finali di energia primaria, non fanno che aumentare anno dopo anno (nel 2022 +1% rispetto al 2019) e dipendono all’80% da fonti fossili; dove nel 2030 secondo le previsioni dell’UNEP lo sfruttamento del carbone, gas e petrolio sarà oltre 2 volte superiore al livello compatibile con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi; dove il carbone rimane il principale combustile per la generazione elettrica (36,4% nel 2021) e in cui la neutralità carbonica di alcuni processi produttivi come cemento, acciaio, fertilizzanti o plastica è impraticabile, diventa giocoforza per il contenimento dei gas serra stimolare la natura ad assorbire più CO2 (riforestazione) e contestualmente ricorrere a tecnologie che facciano questo lavoro come appunto, la CCS.

Sia catturando le molecole di CO2 dai fumi di scarico di centrali elettriche e impianti industriali, sia estraendole da quelle in circolo nell’atmosfera con sistemi di Direct Air Capture (DAC). Per rimuoverle si usano dei giga-aspiratori alimentati da fonti energetiche pulite e continue quale una sorgente geotermica come accade nell’impianto ORCA brevettato dall’elvetica Climeworks in Islanda. In entrambi in casi, il processo di “filtraggio” avviene per effetto di reazioni chimiche con solventi a base di ammine, realizzate a certe condizioni di pressione e temperature. Prima si fissano selettivamente le molecole di CO2, poi si rilasciano e, in uno stato liquido, gassoso o misto (supercritico), l’anidride carbonica viene trasportata via gasdotti anche sottomarini o per mezzo di navi al punto di stoccaggio permanente. Il confinamento avviene in formazioni geologiche in grado di trattenere la CO2 come pozzi di petrolio e gas esauriti, fondali marini.

Processo di cattura, stoccaggio e riutilizzo della CO2

Fonte: National Energy Technology Laboratory

Sebbene il recente dispiegamento commerciale comprima i costi, non siamo ancora giunti al punto in cui le curve di costo fanno coincidere l’opzione verde CCS con quella economica. La fase di cattura si aggira intorno a 70 euro per tonnellata, altri 30 per il trasporto e 40 per lo stoccaggio. A titolo di confronto, attualmente la quotazione di una tonnellata di carbonio sul mercato dei permessi emissivi ETS oscilla tra 85-90 euro.

Nella catena del valore della CCS, la capacità di stoccaggio è un atout. Non a caso il primo CCS hub integrato al Sud Europa nasce al largo delle coste ravennate dove è stimata una capacità di immagazzinamento nei giacimenti esausti di gas di 565 milioni di tonnellate. Il progetto a trazione Eni e Snam, cattura il 90% delle emissioni prodotte da 6 industrie dell’area operativa nel petrolchimico, acciaio e servizi per l’ambiente. L’antesignana è la Norvegia, con 25 anni di esperienza in una tecnologia che ora sta catturando l’attenzione.

Ne parla l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), secondo la quale la rimozione man-made delle emissioni di carbonio contribuirà per 12% al raggiungimento del net zero nel 2050. Nel 2022, per la prima volta in 30 anni di lavori, anche l’IPCC contempla la CCS come un’opzione inevitabile. Arrivano anche i soldi. Il presidente Biden ha appena stanziato 3,7 miliardi di dollari per il decollo della filiera statunitense di tecnologie di rimozione del carbonio.

Parimenti, si adegua anche il quadro legislativo. Nelle nuove linee guida dello scorso dicembre, la Comunità Europea raccomanda ai Paesi membri di inserire nei piani nazionali di energia e clima anche la CCUS, unica leva per la decarbonizzazione di specifici settori industriali. In Europa si contano 70 progetti in diversi stadi di sviluppo su realtà produttive quasi esclusivamente nei paesi del Nord. In compenso, però, è appena partito HERCCULES un progetto di ricerca internazionale che ha come baricentro il bacino Mediterraneo aggiudicandosi  30 milioni di euro da un bando EU. Sotto la direzione del Politecnico di Milano e il coordinamento del Laboratorio Energia e Ambiente Piacenza (LEAP), 23 partner tra cui aziende nazionali come A2A, Buzzi Unicem, Eni, Eucore, Gruppo SIAD, collaboreranno per l’applicazione di processi innovativi di CCS in evoluzione soprattutto con i settori del cemento e della termovalorizzazione dei rifiuti. Si dimostrerà anche la possibilità di utilizzo della CO2 catturata come una commodity nella mineralizzazione per la produzione di nuovi materiali cementizi in sostituzione dell’inquinante calcestruzzo, e il loro impiego nel segmento dei gas tecnici.

A sancire l’attrattiva della CCS tra le tecnologie verdi promettenti, c’è il crescente numero di  start-up che si cimentano in ricerca d’avanguardia per trovare alternative agli energivori processi convenzionali di intrappolamento delle molecole di CO2 dai fumi di scarico e dall’aria. Verdox, spin-off del MIT, ha sviluppato una varietà di polimeri conduttori, i quali in funzione del voltaggio sono capaci di assorbire selettivamente l’anidride carbonica attraverso una sollecitazione elettrica. Una volta intrappolata, il rilascio si realizza modificando il voltaggio, conseguendo un risparmio energetico complessivo del 70%.

CO2 Solutions Inc. sta invece sviluppando la tecnologia utilizzando un enzima naturale per catturare l’anidride carbonica e fornire un flusso di anidride carbonica pura come materia prima chimica per materiali da costruzione e combustibili.

La strada da percorrere è ancora in salita, ma il tempo è davvero pochissimo. A seconda delle stime e degli scenari, si deve rimuovere dai 5 ai 10 miliardi tonnellate di CO2 l’anno per calmierare l’aumento delle temperature sotto i 2 gradi entro il 2100. Troppi se non si interviene subito.

Patrizia Feletig è autrice di Caccia Grossa alla CO2, Milano Finanza Editore, 2023