Il legame tra le navi e il traffico di materiale energetico è strettissimo, giacché per mare viaggia una quantità impressionante di questo genere di cargo. È molto il gas naturale quotidianamente imbarcato sulle cosiddette LNG carriers, sebbene i metri cubi che finiscono a bordo di queste navi siano una frazione contenuta del metano, propano, ecc. internazionalmente commerciato, trattandosi d’idrocarburi principalmente trasferiti via condotta. Come pure è moltissimo il carbon fossile spedito via mare. Siamo, infatti, in questo caso di fronte a un bene fondamentale per il funzionamento tanto del settore siderurgico, quanto degli impianti alimentati a vapore. E quest’ultimi sono tuttora parecchio diffusi. Particolarmente, in Asia, la quale è un’area largamente dipendente dalla lignite, dalla litantrace, ecc. recuperabile in Australia, in Sud Africa e in Russia. Il che spiega – senza, peraltro, essere l’unico motivo - perché la Cina e l’India non abbiano sottoscritto le sanzioni deliberate tempo fa dall’ONU contro Mosca. Infatti, il niet espresso nel Palazzo di Vetro da queste due popolosissime “fabbriche del mondo” asiatiche consente a esse di rifornirsi senza particolari problemi del petrolio e del carbone russo del quale hanno bisogno. Sia pur pagando, per entrambe le merci, lo scotto di un’impennata dei noli.

Ma cos’è successo? L’inevitabile: le ripetute minacce di un rafforzamento dell’embargo hanno diffuso il timore che prima o poi le caricazioni a Novorossiysk, a Primorsk, ecc. siano, se non bloccate, quantomeno raffreddate. E una tale prospettiva ha indotto chi importa dalla Russia a intensificare i ritiri. Così, senza che l’offerta di tonnellaggio potesse stare al passo, è andata all’insù la richiesta di tanker e di bulkcarrier. Quest’ultime sono le navi idonee al trasporto di materiale secco messo in stiva alla rinfusa: il minerale di ferro, il carbone, i cereali, la bauxite e via dicendo. Non solo il livello medio delle freight rate è salito notevolmente, ma su talune rotte– in presenza di circostanze particolari - sono stati toccati dei veri e propri record. Ad esempio, lo scorso maggio una bulkcarrier greca di notevole stazza ha trasferito circa 170.000 tonnellate di carbone russo in Cina spuntando un nolo da favola: 170.000 dollari al giorno per un viaggio abbastanza di lunga durata. In pratica, una montagna di soldi, trattandosi d’una cifra giornaliera che è grossomodo un sestuplo del nolo medio corrente nello stesso periodo per le bulkcarrier d’analoga taglia. La compagnia ellenica proprietaria di questa nave ha messo in tasca questo guadagno eccezionale poiché s’è accollata un rischio fuori misura? Non ci sono motivi per crederlo. Del resto, è il crude oil a costituire il cargo il cui trasporto via mare è maggiormente fonte di rischio. Succede a motivo delle sanzioni varate a danno della Russia? Solo fino a un certo punto, sebbene i premi assicurativi applicati alle navi operanti in Mar Nero siano andati alle stelle, essendo minate le acque del versante settentrionale di questo mare.

In realtà, l’halt agli acquisti dalle aziende moscovite che curano l’export sia del greggio estratto nella Siberia occidentale, negli Urali e nell’area del Caspio, sia degli oil product distillati dai loro impianti di raffinazione ricorda più che altro le grida manzoniane. Infatti, il petrolio russo è regolarmente imbarcato a Novorossiysk e spedito al di là del Bosforo. Succede un po’ perché sono pochi i paesi che davvero hanno cancellato la Russia dall’elenco dei loro fornitori di petrolio. E un po’ perché le sanzioni sono come la garrota, la quale soffoca tanto più rapidamente il condannato, quanto più si stringe alla svelta il cerchio di ferro posto intorno al collo di costui. Però, al momento neppure le nazioni che hanno deliberato di smettere l’utilizzo dell’oro nero russo applicano a fondo le sanzioni, sebbene quest’ultime - se fatte inesorabilmente funzionare - prima o poi mettono con le spalle al muro chi da esse è colpito. Basta considerare ciò che, a rigore, prevedono gli Stati Uniti: finisce nel mirino non solo chi compra o vende un bene che si trova nella lista nera, ma anche le aziende utilizzate per movimentare la merce bandita. Quindi, anche l’armatore della nave, nel caso d’una spedizione marittima. Inoltre, la mannaia non cade solo sulla compagnia di navigazione, ma anche sulle sue controllate e collegate. In più, nel caso di un ulteriore giro di vite, nessun soggetto economico può aver relazione con l’intero gruppo armatoriale coinvolto. Il che vuol dire soffocarlo, poiché esso non può più noleggiare a terzi le proprie navi. Insomma, sulla carta il warning che Washington rivolge a chi concorre alla rottura dell’embargo è nitido: chi tocca i fili muore. In concreto, oggigiorno le cose stanno così? No, perché Washington, Londra e le altre capitali che – a differenza, ad esempio, di Bruxelles per l’Unione Europea - hanno escluso la Russia dal loro import petrolifero chiudono un occhio e si guardano bene dal girare la manovella della garrota, qualora le loro sanzioni siano aggirate tramite l’escamotage che in gergo è detto STS. Ovvero, l’acronimo di ship-to-ship, il quale è un marchingegno così concepito: la compagnia che ha assunto l’impegno di provvedere alla consegna del carico al suo destinatario finale non inizia il viaggio mandando la propria petroliera a imbarcare l’oro nero direttamente in Russia, ma assume il ruolo del vettore solo dopo aver attinto l’olio minerale da una altrui cisterna, il cui compito è quello di fare la spola tra il terminal russo e un meeting point in acque internazionali sicure, ove avviene il trasbordo. Poiché, in concreto, la soluzione STS vede in ballo principalmente il greggio e gli oil product disponibili a Novorossiysk, il meeting point in genere è al largo del Peloponneso. Perché in quel tratto della costa ellenica?

Per due motivi. Il primo è che a svolgere lo shuttle service è naviglio appartenente agli armatori greci disposti a mettere a repentaglio le loro navi di fronte alla prospettiva d’un lauto guadagno. Però, detti armatori non hanno alcun interesse a realizzare il transhipment in un punto molto lontano dallo Stretto dei Dardanelli, avendo pur sempre a bordo un carico equivalente a una patata bollente in bocca. Il secondo motivo è che la soluzione STS non coinvolge solo il crude oil, ma prevede una variante nel caso di taluni oil product. Come il combustibile marino (che al momento deve far fronte a una forte richiesta nei centri di bunkeraggio sparsi per il mondo) e alcuni distillati russi che le raffinerie poste in India e a Singapore impiegano volentieri come semilavorato da ridistillare per rifornire la loro business area. Così, questa variante rende conveniente sistemare presso i depositi e gli impianti presenti a Calamata gli oil product russi provenienti da Novorossiysk tramite shuttle service. A Calamata (una città  affacciata sul tratto greco dello Ionio), infatti, gli oil product russi possono essere facilmente assemblati e fatti procedere al successivo inoltro. Anche impiegando petroliere di forte stazza per economizzare sul nolo. Addirittura, recentemente ben due Suezmax (vale a dire due cisterne ciascuna delle quali è in grado d’imbarcare un milione di barili di petrolio) sono partite da Calamata colme di prodotti petroliferi russi. Un record, poiché l’utilizzo di cisterne di questa size nelle spedizioni d’olio minerale raffinato è tutt’altro che un fatto ordinario. Comunque, una di queste due tanker era colma di bunker destinato al Middle East Gulf, mentre l’altra Suezmax ha posto la prua in direzione dell’India.

Ad ogni modo, è il greggio soprattutto ad essere scambiato negli STS. Anzi, sono proprio gli importatori installati negli Stati Uniti – seguiti da quelli presenti in Gran Bretagna, negli Emirati Arabi, in India e in qualche altro paese – a fare ricorso in larga misura allo ship-to-ship, il quale evidentemente è valutato un gioco che vale la candela, pur essendo costoso. Il suo rovescio di medaglia, infatti, è quello di dare una tranquillità inestimabile agli armatori che caricano in Peloponneso il greggio proveniente da Novorossiysk. Una tranquillità che, insieme al naviglio greco impegnato nello shuttle service, è il perno di quest’escamotage, al quale – in barba ai proclami dell’amministrazione Biden – ricorrono abbondantemente anche le raffinerie statunitensi, che ricevono tramite STS almeno 700.000 barili/giorno di greggio russo. Da fenomeno per aggirare le sanzioni a un fenomeno in espansione, questa la parabola del STS. Iniziato timidamente a marzo, ad aprile ha trovato ben 18 applicazioni e presumibilmente molte di più in maggio. Inoltre, pare che - in base al principio “piatto ricco, mi ci ficco” - i russi stiano cercando di coinvolgere in quest’escamotage altri due offshore: quello di Rotterdam e quello di Ceuta, la città spagnola collocata in Marocco e affacciata sul Mar Mediterraneo, vicino allo Stretto di Gibilterra.

Questo ci da la dimensione di quanto aggirabili siano le sanzioni contro la Russia e che non sono queste ultime la spada di Damocle gravante sul traffico marittimo d’olio minerale, ma un’altra criticità: il braccio di ferro in atto tra Washington e Teheran in merito all’imbrigliamento delle esportazioni dell’oro nero iraniano. In altre parole, a preoccupare l’oil business non sono tanto le difficoltà collegate all’export russo che origina nel Mar Baltico e nel Mar Nero, né l’eventualità di attentati in vie marittime clou (siano esse costruite – come il Canale di Suez e quello di Panama – oppure naturali, come il Bosforo), bensì i potenziali colpi di mano capaci di rendere inagibile lo Stretto di Hormuz. Si tratta del braccio di mare che, descrivendo una specie di gomito, separa l'Iran dal territorio degli Emirati Arabi Uniti e che di fatto è la porta regolante l’accesso al Middle East Gulf, presso i cui terminal è imbarcata quasi la metà del crude oil che viaggia per mare. E lì, in quello specchio d’acqua, lungo circa 60 km e largo circa 30, che sotto la cenere cova il fuoco. Specie dopo che Trump ha trattato come un chiffon de papier l’accordo sul nucleare iraniano faticosamente raggiunto a Vienna qualche anno fa. Un fuoco che ultimamente si è rafforzato parecchio, tanto che Teheran ha sequestrato, con una spettacolare operazione di polizia marittima, due Suezmax appartenenti all’armamento ellenico quale ritorsione verso Atene, rea – secondo l’Ayatollah Ali Khamenei – d’aver consegnato agli Stati Uniti circa 100.000 tonnellate di greggio iraniano imbarcate su una cisterna russa, approfittando del fatto che la nave, a motivo d’un guasto al motore, nell’aprile scorso aveva dovuto lasciare le acque internazionali per rifugiarsi in un porto greco. Per Teheran s’è trattato d’un ladrocinio. Per Atene d’una mera applicazione obtorto collo delle sanzioni che Washington pratica nei confronti dell’export petrolifero iraniano. Per gli armatori e gli assicuratori marittimi d’un motivo in più di preoccupazione nei confronti di quanto, nel caso d’un luccicar di sciabole, potrebbe accadere nello Stretto di Hormuz, visto che lì si trova la giugulare del traffico petrolifero via mare.