Il 26 maggio scorso, su richiesta degli Stati Uniti, le autorità greche hanno disposto il sequestro di una nave russa contenente oltre 100.000 tonnellate di greggio iraniano. Ormeggiata in acque territoriali greche, la nave era stata originalmente bloccata il 15 aprile perché sospettata di violare le sanzioni sulla Russia. L’equipaggio contava 19 russi e la nave era di proprietà della Promsvyazbank, sottoposta a sanzioni Ue, ma dal marzo scorso passata ad una seconda compagnia russa, la Transmorflot, non colpita dalle sanzioni. Dapprima battente bandiera russa, quest’ultima, il 1 maggio, è stata sostituita con quella iraniana, portando quindi all’intervento Usa, che ha disposto il nuovo sequestro per via delle sanzioni che gravano sull’Iran.
Nel suo insieme, questi eventi dimostrano le difficoltà di tracciamento nell’opaco mondo del commercio petrolifero via nave, nonché gli sforzi sempre più sofisticati di oscurare la provenienza dei cargo per consentire a paesi, come appunto la Russia e l’Iran, di aggirare le sanzioni occidentali. Andando più a fondo, tutto questo va, inoltre, contestualizzato in una cornice più ampia: quella dello scontro per procura tra Iran e Stati Uniti, un conflitto ibrido fatto di luci e ombre che di nuovo rischia di assumere portate preoccupanti mentre sullo sfondo sembrano svanire le possibilità di ripresa dell’accordo sul nucleare iraniano, conosciuto come il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA).
Il sequestro del greggio iraniano ha suscitato dure condanne da parte di Teheran, mentre da Mosca riecheggia il silenzio sull’accaduto. La promessa di “azioni punitive” da parte iraniana non si è comunque fatta attendere. Mentre sui media veniva diffusa la decisione – in seguito bloccata da una corte greca – di trasferire il greggio ad una seconda nave diretta poi negli Usa, il 27 maggio, l’Iran ha sequestrato due navi petrolifere greche nel Golfo Persico – la Delta Poseidon e il Prudent Warrior – la seconda in rotta dall’Iraq proprio verso gli Usa con oltre $100 milioni di dollari di greggio in stiva.
L’intento è quello di intavolare uno scambio con il cargo iraniano ancora in mani greche, come accadde nel luglio 2019 con il Regno Unito. Al tempo, una nave iraniana fu sequestrata dai marine britannici in cooperazione con gli Usa nello stretto di Gibilterra. Successivamente fu poi restituita a seguito di sequestri di altre navi inglesi nel Golfo Persico da parte dell’Iran. Oggi come allora, l’accusa è la violazione delle sanzioni imposte sull’Iran (e la Siria). Vi è però un’importante novità: l’apparente coinvolgimento russo, partner strategico di Siria e Iran, e oggi sempre più interessato al mercato parallelo del petrolio per aggirare le sanzioni imposte su Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina.
Tramite il contro-sequestro delle due navi greche, l’Iran ha voluto rimarcare un certo equilibro di deterrenza tra le parti. La strategia sembra aver avuto successo. Il 14 giungo, secondo fonti iraniane, la Grecia ha disposto il rilascio della nave e il suo cargo, sempre a seguito della decisione della corte ellenica che ha bloccato il trasferimento del greggio iraniano agli Usa. Sebbene manchi ancora la conferma ufficiale da parte della autorità greche, sembra che l’episodio sarà superato senza significative ripercussioni, risolto grazie alle leggi nazionali e internazionali che governano il commercio e trasporto di merci, in questo caso il petrolio. Rimane ora da valutare anche il rilascio delle due navi greche in mano iraniana.
Tutto questo accade però durante un periodo particolarmente teso nella regione, segnato da crescenti scontri indiretti tra l’Iran e Israele in Siria, Iraq e Libano. Il 10 giungo, l’aeroporto di Damasco è stato colpito da razzi israeliani, causando significativi danni e costringendo la chiusura dello scalo internazionale della capitale siriana fino a data da definirsi. Questa ennesima azione israeliana in territorio siriano mira ad impedire il trasferimento di materiale bellico dall’Iran alla Siria e/o a Hezbollah nel Libano, in quello che da tempo è un fronte particolarmente caldo nella cosiddetta “shadow war” tra Tel Aviv e Teheran.
L’attacco israeliano fa seguito ad altre recenti azioni militari che includono l’omicidio il 22 maggio di un colonnello delle Guardie rivoluzionarie iraniane a Teheran, ampiamente imputato ai servizi segreti israeliani, e un imponente attacco missilistico iraniano che il 13 marzo ha colpito Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Secondo fonti media, l’attacco mirava a dissuadere le autorità irachene da qualsiasi collaborazione con Israele in ambito di export energetico: un’eventualità che sta assumendo nuova importanza in vista della corsa a fonti energetiche alternative in Europa a seguito delle sanzioni sulla Russia.
Sono mesi che si sente parlare di nuovi piani per l’export di idrocarburi iracheni, piani che connetterebbero l’Iraq con la Turchia e da lì verso l’Europa. Israele stesso è fortemente interessato ad aumentare il proprio export di gas dal Mediterraneo orientale verso l’Europa non solo via nave oppure tramite gli impianti di liquefazione ora presenti in Egitto, ma possibilmente anche grazie a una connessione a nord con la Turchia, dove le risorse sarebbero movimentate grazie alle stesse infrastrutture utilizzate per l’eventuale export iracheno.
Dal punto di vista iraniano, paese che dispone delle seconde riserve di gas mondiali dopo la Russia, nonché di significative risorse petrolifere, l’esclusione da questi piani regionali rappresenta l’ennesimo tentativo di isolare e indebolire il paese. Un obbiettivo imputato agli Usa quanto ad Israele e alle monarchie arabe, anche esse importanti esportatori di idrocarburi. Teheran cerca quindi di sovvertire queste iniziative, utilizzando anche lo strumento militare. Lo stesso accadde tra il 2019 e il 2020, quando numerosi attacchi hanno preso di mira navi ed infrastrutture petrolifere Saudite e degli Emirati Arabi Uniti nel Golfo Persico. Il ragionamento iraniano è chiaro: fino a quando non sarà riconosciuto all’Iran il diritto di esportare le proprie risorse energetiche, sollevando quindi le sanzioni, Teheran dimostrerà che può impedire, o almeno complicare, l’export di altri paesi nel proprio vicinato.
Tutto questo è una causa diretta della decisione unilaterale e spregiudicata dell’amministrazione Trump di ritirare gli Usa dal JCPOA nel maggio 2018 nonostante l’adempimento dell’Iran ai termini dell’accordo. Legalmente, infatti, tale accordo è stato violato dagli Usa, non dall’Iran, con la decisione del ritiro e la reintroduzione di sanzioni statunitensi nei confronti di Teheran. Dopo l’elezione di Biden nel novembre 2020 sono stati avviati diversi incontri negoziali a Vienna per riattivare l’intesa, ma ad oggi è difficile trovare spiragli di ottimismo per un successo negoziale. Le posizioni rimangono lontane e lo scoppio della guerra Ucraina ha ulteriormente complicato la vicenda.
Con l’avanzare delle elezioni mid-term di questo novembre negli Usa, è difficile pensare che il presidente Biden sia in grado di avanzare un compromesso con l’Iran, da decenni oggetto di censure bipartisan negli Usa. Detto questo, il rincaro dei prezzi energetici, che recentemente hanno toccato un nuovo record negli Stati uniti, così come l’inflazione, certo non gioveranno alle chance elettorali del partito democratico. Biden potrebbe quindi essere orientato ad un tacito consenso affinché l’Iran immetta più petrolio sui mercati, allentando informalmente le sanzioni secondarie nei confronti di paesi terzi coinvolti nel commercio con Teheran, nella speranza di stabilizzare il prezzo del greggio.
La notizia, data recentemente dalle autorità iraniane, secondo cui l’export di petrolio iraniano è aumentato del 40% tra marzo-maggio 2022 rispetto all’anno precedente, potrebbe indicare l’effettiva messa in atto di questa politica, sebbene manchino naturalmente conferme ufficiali da Washington. Ciò che è comunque certo, è che a causa dei rincari dei prezzi, gli introiti provenienti dall’export energetico iraniano (come quello russo e di altri esportatori) sono schizzati alle stelle, consentendo quindi alle autorità iraniane di accumulare importanti risorse per fare fronte alla profonda crisi economica in atto nel paese. Il principale acquirente di greggio iraniano, la Cina, è però sempre più orientato ad acquisire petrolio russo per via degli sconti offerti da Mosca, costretta ad abbassare i prezzi per piazzare il greggio originalmente destinato all’Europa e altri paesi oggi allineati con le sanzioni. Rimane quindi da vedere se l’Iran riuscirà a mantenere stabile l’export energetico verso la Cina anche nel prossimo futuro.
Mentre a Washington si contemplano i prossimi passi nei confronti dell’Iran e la Russia, con un occhio sempre inquadrato alle elezioni politiche di novembre, da parte europea non si intravedono mosse o strategie concrete per evitare il baratro. Ad oggi, la preoccupazione è quella che si ripetano le forti tensioni che hanno caratterizzato gli anni 2019-2020, quando a seguito del ritiro Usa dal JCPOA si è più volte arrivati ad un passo dal conflitto diretto tra le parti. Fu allora che la “shadow war” Usa/Israele-Iran riprese a ritmo serrato, dopo un precedente periodo che risale agli anni 2012-13, appunto prima della firma sull’accordo del 2015. Dal tardo 2018 in poi furono Usa e Israele a compiere azioni spregiudicate, assassinando importanti generali e scienziati iraniani, mentre gli israeliani colpivano clandestinamente navi iraniane intente nel commerciare con la Siria. Fu il Wall Streat Journal a diffondere per primo la notizia di almeno 12 attacchi israeliani nei confronti di imbarcazioni iraniane tra il tardo 2019 e il marzo 2021. L’Iran rispose con altrettante azioni di sabotaggio e attacco nei confronti di navi Israeliane e/o degli alleati statunitensi nella regione e questo mentre il programma nucleare iraniano ricominciò a lavorare e nonostante (o meglio in reazione) alla decisione di Trump di reintrodurre le sanzioni su Teheran.
Il risultato? l’Iran è oggi più vicino che mai ad avere materiale sufficiente per la costruzione di un’arma atomica, mentre l’accesso internazionale al paese è diminuito drasticamente, cosi come la credibilità occidentale, prima tra tutti europea, nei palazzi di potere iraniani. Ma c’è di più. Per quanto la popolazione iraniana continui ad essere generalmente orientata verso ovest, la reintroduzione delle sanzioni statunitensi e l’incapacità dell’Unione Europea e dell’amministrazione Biden di trovare un compromesso per la riattivazione del JCPOA hanno effettivamente spinto l’Iran verso est (Cina e Russia). Tutto ciò ammonta ad un clamoroso autogoal che deriva dalle decisioni spregiudicate dell’amministrazione Trump, che lo stesso Biden non è stato capace di invertire, e che, ad oggi, con le sanzioni occidentali sulla Russia (e la Cina, cosi come il Venezuela, la Siria e il Libano, oltre che l’Iran) appare ancora meno possibile arginare. Al contempo questo gruppo di paesi si trova sempre più allineato, scambiandosi expertise e favori per aggirare le sanzioni internazionali nei propri confronti.
In tutto ciò l’Europa resta a guardare, ma, come già accaduto in passato, sarà proprio il Vecchio Continente a pagare il prezzo più alto dal possibile collasso dei negoziati sul ritorno al JCPOA. Lo pagherà non solo in ambito energetico, ma anche securitario, a partire dall’Iraq. Qui l’Italia ha da qualche mese preso le redini della missione NATO, con tutti i rischi e le incognite associate a questo ruolo in un paese profondamente frammentato e fragile, sottoposto a diverse ingerenze esterne, ma di cui si sa e si parla ancora troppo poco. Bruxelles, insieme a Roma e altre capitali europee, farebbe bene oggi ad aumentare gli sforzi politici e diplomatici verso l’Iraq e l’Iran per prevenire che la “guerra delle ombre” esca una volta, e per tutte, allo scoperto.
Andrea Dessì, Responsabile del programma Politica estera dell'Italia e Responsabile di ricerca nel programma Mediterraneo, Medioriente e Africa dell’Istituto Affari Internazionali (IAI); direttore editoriale della collana "IAI Commentaries". Twitter: @AndreaDess2