A differenza degli altri pacchetti di sanzioni imposti dall’Unione Europea, sembra che il sesto – relativo all’embargo del petrolio e dei prodotti petroliferi russi - stia dividendo gli stati membri e non sia di facile attuazione. Quali sono le vere ragioni che non rendono praticabile quest’opzione e che esulano dalla mera opposizione di alcuni paesi come l’Ungheria? Ce lo spiega in una lunga e puntuale intervista Salvatore Carollo, Oil and Energy Analyst and Trader.
1)Tra l’idea di imporre un embargo al petrolio e la sua effettiva attuazione c’è di mezzo l’Ungheria e non solo. A differenza di altre occasioni verificatesi da quando è iniziata la guerra, in questo caso l’Unione Europea si è mostrata poco unita. Quanto conta il petrolio russo per il continente europeo?
Per inquadrare bene la questione è necessario fare una premessa. La situazione è diversa a seconda che si considerino il greggio o i prodotti finiti. Si tratta infatti di due mondi diversi ed è utile capire il perché.
Partiamo dal greggio. Se un embargo petrolifero da imporre ad un paese esportatore fosse stato proposto 20 anni fa, l’Europa sarebbe stata in grado di gestirlo senza particolari criticità. E questo in ragione del fatto che il sistema europeo di raffinazione era molto più flessibile e poteva contare su una spare capacity di rilievo.
Negli ultimi vent’anni, però, moltissime raffinerie europee sono state chiuse, determinando una riduzione considerevole della capacità di raffinazione. Il che implica anche il sorgere di molti più vincoli ad accettare alcuni tipi di greggio da raffinare se si vogliono ottenere prodotti finiti con determinate qualità da immettere sul mercato.
Inoltre, quando si parla di embargo europeo non si può generalizzare, visto che fra i paesi europei ci sono differenze sostanziali. Prendiamo il caso dell’Ungheria che si è opposta fermamente all’imposizione di un “ban” alle importazioni di petrolio greggio, e, aggiungiamo, per ovvie ragioni. Il paese non ha sbocchi sul mare, pertanto tutto il greggio importato arriva attraverso una sola pipeline e si tratta di petrolio russo. Chiedere all’Ungheria di diversificare l’approvvigionamento, suona come una beffa, perché non è tecnicamente possibile. Ma la cosa più grave è che la criticità di Budapest è solo la “foglia di fico” dietro la quale le istituzioni europee si nascondono per giustificare la difficile applicabilità dell’embargo. In realtà, al di là del singolo caso specifico, non è semplice fare a meno del petrolio russo. E questo per ovvie ragioni tecniche che, stranamente, vengono sottaciute. Alcune raffinerie europee, infatti, sono state progettate per funzionare con il greggio russo, pertanto per sostituirlo bisognerebbe utilizzare una miscela di greggi diversi (ad es. iracheno, iraniano, libico) così da riuscire a mantenere l’equilibrio degli impianti. Una simile pratica, per quanto tecnicamente possibile, è molto complessa e soprattutto costosa. Tra l’altro, a differenza di quanto avviene per il gas, che è vincolato al tubo che lo trasporta, il petrolio può essere movimentato con più facilità da un bacino di consumo all’altro, specie nell’attuale contesto di prezzi superiori ai 100 doll/bbl. I costi di trasporto sarebbero nell’ordine di 1 doll/bbl, quindi meno dell’1% del suo costo complessivo. Pertanto, non ci sarebbe da stupirsi se l’oil russo “destinato” ai paesi europei arrivasse nel Mar Nero e poi da lì venisse direzionato in Turchia, Libia, Cipro, paesi non vincolati dalle scelte di Bruxelles; tanto meno ci dovremmo stupire se attraversasse il Canale di Suez e giungesse in India, Cina e altri paesi asiatici. Un “turismo” del greggio che sarebbe pienamente compatibile con gli equilibri economici complessivi del mercato petrolifero.
Se guardiamo ai prodotti finiti, ci rendiamo conto che si tratta di un settore completamente diverso e che ancora di più del greggio rischia di bypassare le sanzioni con facilità. Per capire perché, vale premettere una cosa. Mettiamo il caso che una nave di petrolio russo arrivi in Turchia; qui il greggio viene raffinato in miscela con altri tipi di petrolio con il risultato che i prodotti ottenuti perdono il legame con il greggio di partenza. Se da quel mix di greggi (incluso quello russo) viene prodotto gasolio, nella bill of lading (ossia nella polizza di carico) verranno indicate tutte le qualità del gasolio, ma non da quale greggio esso è stato prodotto. La stessa cosa avviene se la nave di petrolio russo arriva in Libia o in un altro paese mediterraneo. Dal momento in cui i prodotti sono raffinati possono raggiungere qualsiasi tipo di mercato, compresi quelli europei, senza infrangere alcuna sanzione. Pertanto, se la sanzione sul greggio è teoricamente possibile anche se non praticabile, quella sui prodotti è propaganda pura, perché non esiste un’effettiva controllabilità dei flussi. Ecco perché, anche qualora si riuscissero a superare tutti gli ostacoli che frenano l’imposizione dell’embargo, l’unica cosa che si otterrebbe è l’aumento del “turismo" petrolifero, cioè di questo giro di carichi che dalla Russia si muovono in porti diversi da quelli europei con un conseguente aumento dei costi di trasporto e logistici. Costi che verranno riversati alla pompa e alla stazione di servizio, quindi sul consumatore europeo, senza effettivamente colpire in maniera forte la Russia.
2) In parte la spiegazione alla prima domanda ci aiuta a rispondere anche alla seconda. In caso di embargo, la Russia può guardare a Oriente per vendere il suo petrolio?
La risposta è assolutamente affermativa. Già ad oggi, di tanto in tanto, si registrano carichi del Mare del Nord che vanno in Giappone e in Cina. Pertanto il fatto che carichi russi vadano ad Oriente rientrerebbe nella normalità. Nulla osta che una parte di greggio russo attraversi il canale di Suez e giunga in India, Corea, Giappone e Cina con un impatto sui costi di trasporto trascurabile rispetto al prezzo del greggio di oggi. Come detto prima, nel caso del petrolio, il vincolo infrastrutturale non è così stringente come nel caso del gas. Il gas è vincolato al tubo che è stato costruito: ci sono dei giacimenti che immettono il gas direttamente in un tubo che poi finisce in Europa. Per diversificare queste forniture ci vuole il tempo necessario per costruire altri gasdotti che arrivano in altri paesi. Questo spiega perché nel breve-medio termine, quel gas può arrivare solo in Europa. Per il petrolio è tutto diverso, c’è molta più flessibilità. Questo corrobora ancora di più la tesi secondo cui sembra di essere più nell’ambito della propaganda che nella ricerca di soluzioni reali alternative fattibili.
3) Perché quindi questo autolesionismo?
Per me, finora, su tutta la questione energetica più che soluzioni concrete ci stanno raccontando delle favole. Sentiamo da giorni che i nostri politici vanno nel West Africa per fare accordi di acquisto del gas, ma nessuno ci dice che si tratta “solo” di accordi di amicizia e non di veri e propri contratti di vendita del gas e quindi tali da riportare volumi e tempi di consegna effettivi di forniture alternative. Alcuni paesi, individuati come potenziali fornitori alternativi, in realtà non lo sono. Questi sono fatti noti, ma di essi si preferisce non parlare. Dire di aver trovato fonti alternative serve forse a tranquillizzare l’opinione pubblica, probabilmente nella convinzione che questa crisi rientrerà presto e che tutto tornerà come prima. Ancor di più perché nulla è stato fatto di concreto, ad oggi, per avviare un reale piano energetico alternativo. Infatti, se in qualche modo si è pensato di mettere in piedi qualche rigassificatore galleggiante, per lo sfruttamento del gas nazionale - che esiste e sarebbe anche disponibile in tempi brevi - non è stato fatto nulla. E questo è un paradosso: se un rigassificatore contribuirà a spostare una percentuale della dipendenza energetica dalla Russia verso altre realtà meno sicure e più costose, investire sul gas nazionale ridurrebbe concretamente la nostra vulnerabilità energetica rispetto alle volontà di altri paesi. Se realmente crediamo nella gravità della crisi dovremmo affrontare una svolta nella politica energetica, come si fece nel 1974 dopo la prima crisi petrolifera mondiale.
4) Questo in parte risponde alla prossima domanda. Il nostro paese come si sta ponendo nei confronti dell’embargo? Avremmo valide e rapide alternative per sostituire il petrolio russo? La decisione del nostro governo di ridurre d’imperio le scorte d’obbligo di prodotti petroliferi sino al 30 giugno sembra non tenere conto di un possibile ammanco di greggio e prodotti russi. Quale è la logica?
Il tema delle scorte è particolarmente sensibile. In Italia, a differenza degli Stati Uniti, le scorte non sono di proprietà dello stato ma appartengono agli operatori i quali, per avere la concessione ad operare, devono mantenerne un certo livello nel sistema di raffinazione. Normalmente il livello delle scorte d’obbligo è molto vicino a quello che si chiama minimum operating requirement, cioè la quantità minima che consente di operare in sicurezza.
Ovviamente, tutti i sistemi industriali complessi operano con certi intervalli di flessibilità per garantire il funzionamento del sistema. Può succedere che in momenti particolari si registrino lievi disallineamenti fra livelli d’obbligo e quelli operativi, soprattutto quando ci si deve far carico della garanzia dei rifornimenti al paese.
Il problema però non è tanto e solo quello delle scorte. L’Italia, così come gli altri paesi europei, ha una carenza strutturale di prodotti petroliferi, specialmente di gasolio e jet fuel per gli aerei, dovuta alla crisi della raffinazione. Pertanto, con alcune eccezioni momentanee, siamo costretti a importare questi prodotti dall’Europa Orientale, compresa la Russia. Va da sé che in caso di blocco di questi flussi, ci troveremmo a corto di alcuni prodotti, come il gasolio, e non saremmo in grado di produrlo totalmente nel nostro sistema di raffinazione. Come sostituire quindi i volumi russi? L’Africa non ha capacità di raffinazione a sufficienza per sopperire all’ammanco, pertanto, dovremmo importarlo dall’Estremo Oriente che è un’idrovora dei prodotti petroliferi, con la conseguenza di entrare in competizione con il mercato più caro del mondo e di registrare un inevitabile aumento dei costi di approvvigionamento. Costi che non sarebbero compatibili con il nostro equilibrio economico. Ne risentirebbero il settore dei trasporti, dell’agricoltura ecc. Questa evidenza non può sfuggire alle autorità e ai ministeri.
5)Spostiamoci sull’altra sponda dell’Atlantico. Inflazione negli Stati Uniti e produzione shale? Quale correlazione e come la prima può influenzare la produzione di greggio americana nel prossimo futuro?
Ancora una volta serve fare una precisazione che contestualizzi la situazione. Il sistema di raffinazione americano non è autonomo, ma è stato progettato per essere integrato con quello europeo. Strutturalmente, gli USA hanno sempre importato dall’Europa benzine e componenti ottanici da miscelare con le benzine prodotte nelle proprie raffinerie, così da renderle qualitativamente adatte ad essere immesse nel mercato.
Tuttavia, con la crisi della raffinazione europea, il paese a stelle e strisce è stato costretto a importare questi componenti dal Sud America, Venezuela in particolare. Sul totale di benzina da immettere sul mercato, il 30% si riesce a produrre direttamente nelle raffinerie senza bisogno di miscelare altri componenti ottanici. Il rimanente 70% necessita invece di questi prodotti importati.
La premessa serve a dire un’altra cosa importante: lo shale oil, estratto negli USA, non è assolutamente appropriato per il sistema di raffinazione americano perché si tratta di un greggio troppo leggero, quasi un condensato, che per essere utilizzato richiederebbe una modifica all’equilibrio delle colonne delle raffinerie.
Questo spiega perché buona parte dello shale oil prodotto viene esportato sui mercati internazionali, mentre i greggi del Golfo Persico vengono importati per riuscire a far marciare gli impianti in maniera equilibrata. Pertanto l’affermazione secondo cui l’America esporta shale oil viene malamente interpretata dagli analisti: non vuol dire che l’America ha così tanto petrolio da riuscire a soddisfare la domanda interna e da esportarlo anche all’estero. Vuol semplicemente dire che lo shale oil non è funzionale all’equilibrio del sistema di raffinazione americano che, al contrario, per funzionare ha bisogno di greggi esteri.
Ancora oggi l’America continua a importare circa 6 milioni di bbl/g di greggi per poter rifornire i propri mercati interni. L’importazione avviene da tanti paesi diversi (Penisola arabica, Emirati) e solo in piccola quantità dalla Russia, il che spiega perché siano riusciti a imporre un embargo sul petrolio russo senza grosse difficoltà.
Il fatto che la produzione di shale oil aumenti o si riduca non cambia, poi, in maniera radicale gli equilibri del mercato energetico americano. Parimenti, pensare che una maggiore produzione di shale oil permetta alle raffinerie europee di sopperire all’ammanco di greggio russo sarebbe pura utopia, perché nemmeno le nostre raffinerie sono state create per lavorare il greggio Usa che, al contrario, serve nel processo di raffinazione di paesi come gli Emirati Arabi.
6) OPEC vs Stati Uniti: quali sono i rapporti?
I rapporti fra il mondo arabo e gli USA non sono dei migliori, specie dopo l’invasione dell’Iraq. Ultimamente la stampa ha riportato alcuni tentativi di Biden di parlare con il principe saudita e gli sceicchi degli Emirati Arabi. Ma pare, sempre secondo fonti giornalistiche, che questi ultimi non abbiano risposto al telefono.
L’OPEC+ non è un OPEC con nuovi membri, ma è diventata una specie di sede politica dove si discute di strategie energetiche e dove si registra un nuovo consenso in materia di politica energetica mondiale. Questo gli USA lo sanno e lo temono, ma ad oggi non sono riusciti a rompere questo insieme di intese. Non è casuale che l’OPEC non stia aumentando la produzione per compensare l’eventuale diminuzione della Russia e sembra che non intenda farlo. È chiaro che l’OPEC ha dimostrato di non volersi allineare con il mondo occidentale, probabilmente perché gli Stati in seno all’organizzazione intendono rivedere la politica energetica internazionale, specie dopo che gli equilibri del Golfo Persico sono stati messi in discussione con l’invasione dell’Iraq. Minacciare l’OPEC, quindi, non porta a nessun risultato. Tra l’altro, quale minaccia potrebbe essere realistica? Costringerli a produrre di più? Ma anche qualora la minaccia producesse i suoi risultati, il problema non è nemmeno poter disporre di maggiori volumi di petrolio greggio, ma trasformare quest’ultimo in prodotti finiti di qualità. Questa è la vera sfida, ma di questo non se ne parla. Pertanto concludo dicendo, che, da un punto di vista energetico, la guerra in Ucraina non ha cambiato le dinamiche, le ha solo rese più evidenti: di fatto il mercato energetico globale deve fare i conti con alcune tensioni strutturali che si trascinano ormai da anni.