Cosa rappresenta la crisi ucraina per il mondo dell’energia? Uno straordinario, imprevisto e irripetibile test per la transizione energetica. Vediamo meglio perché. La crisi riporta in primo piano, dopo anni di oblio, la questione della sicurezza energetica e ci fa capire meglio un’antica lezione che anni di pace ci avevano fatto dimenticare: l’energia non è assimilabile agli altri beni, essenzialmente per due ragioni: uno, rappresenta il sangue dell’intera struttura economica, la linfa che la irrora e ne rende possibile la vita; due, ha una valenza geopolitica che altri beni non posseggono. Dunque, l’aggressione della Russia all’Ucraina ci fa comprendere che ciò che era diventato uno slogan - l’esigenza della sicurezza energetica, appunto – è qualcosa di realmente vitale per i paesi. Di qui la necessità di affrancarsi dalla dipendenza da un paese ostile o, in linea più generale, dall’eccesso di dipendenza energetica da qualsiasi paese. E poiché l’energia importata dal paese ostile – la Russia – è soprattutto petrolio e gas, ecco che si manifesta una straordinaria opportunità di ridurne i consumi, a beneficio delle rinnovabili. Questa spinta, di natura geopolitica, è rafforzata da quella del mercato, rappresentata dagli elevati prezzi delle fonti fossili, già manifestatisi prima dell’attacco all’Ucraina e in seguito rafforzatisi. È questa doppia pressione - favorevole a una maggiore penetrazione delle fonti low carbon hic et nunc - ad agire come straordinario impatto positivo sulla transizione energetica. Ma lo è davvero?

Più di tutto qui conta la variabile tempo. Da una parte la transizione energetica, così come il cambiamento climatico, è questione di lungo periodo. Dall’altra, la crisi ucraina introduce in essa un senso di urgenza che non le appartiene ma che potrebbe arrecarle – se sfruttato opportunamente – grande beneficio. La crisi ucraina, infatti, si caratterizza per elevati livelli di incertezza e imprevedibilità che si traducono, puntualmente, in elevata volatilità sui mercati energetici. Il rischio è così alto che Goldman Sachs ha congetturato prezzi del petrolio intorno ai 175 doll/bbl entro l’anno, così come non si può escludere un blocco dei flussi di gas verso l’Europa e, conseguentemente, razionamento, prezzi record e freno alla crescita economica. Ciò determina un’accelerazione formidabile a uscire dalla dipendenza prima possibile. Di qui l’impatto positivo sulla transizione, la potenziale rottura della sua flemma strutturale, della sua astenia ormai cronica.

Ma il gioco non è così semplice e meccanico come appare. L’equazione più sicurezza energetica uguale più rinnovabili uguale transizione più veloce è solo una delle possibili. Non siamo di fronte alla mera espressione del principio di azione-reazione. Piuttosto assistiamo a una partita a scacchi nella quale le opzioni sono plurime e la mossa fatta oggi può immette il giocatore su un sentiero di gioco potenzialmente opposto alla penetrazione delle fonti verdi. Di nuovo entra in gioco la variabile tempo. Come ha ben sottolineato l’Agenzia dell’Energia nel recente Report su dieci azioni per ridurre la dipendenza dal gas russo, nella misura in cui l’Europa cercherà di muoversi verso l’indipendenza energetica nel breve periodo, potranno risultare effetti perversi sulle emissioni e sui costi: “The faster EU policymakers seek to move away from Russian gas supplies, the greater the potential implication, in terms of economic costs and near-term emissions”. L’idea implicita è che la ricerca di una soluzione immediata possa rimettere in gioco il carbone - come già ipotizzato in paesi quali Italia, Francia e Germania – e, dunque, procedere in direzione opposta alla decarbonizzazione. Per quanto non si possa escludere che nel breve periodo ciò possa accadere - soprattutto se si manifesteranno shock sul lato dell’offerta di gas russo – è ragionevole credere che l’impatto sia di breve periodo. Certo, un 2022 con emissioni crescenti in Europa sarebbe notizia eclatante, ma nel medio-lungo è da escludere che l’Europa rinneghi il Green Deal.

Tra questi due scenari – accelerazione e freno alla transizione – ve n’è uno intermedio che ha qualche probabilità di realizzazione. Ci riferiamo alla sostituzione, in Europa, di gas russo con gas di altra provenienza. Molti paesi europei, Italia inclusa, stanno cercando rifornimenti alternativi da altre aree del mondo: Africa, Nord-America, Medio-Oriente. Recentemente, Biden ha affermato l’impegno americano a fornire 15 miliardi di metri cubi di Gnl all’Europa, da aumentare fino a 50 entro il 2030. Al di là delle numerose e considerevoli criticità insite nella realizzazione di tali piani – temporali, strutturali, geopolitiche e di mercato – è chiaro che qualora uno scenario del genere divenisse reale, si opererebbe una mera operazione di sostituzione: cambierebbe l’esportatore ma la fonte rimarrebbe immutata. In tal senso, non si realizzerebbe un’accelerazione verso la transizione energetica. E tuttavia non si può escludere che tale scenario, apparentemente conservatore, acceleri il processo di decarbonizzazione cinese o, più in generale, orientale, con il gas russo che va a sostituire il carbone. Paradossalmente, anche in virtù della lunghezza sia dei progetti infrastrutturali sia dei contratti, si limiterebbe il processo di transizione europeo e favorirebbe quello cinese. Posto che l’Europa farà di tutto per liberarsi dal gas russo, le domande chiave sono le seguenti: in che misura e in quanto tempo l’Europa sostituirà il gas russo? Dove finirà il gas russo, in che misura e in quanto tempo raggiungerà la nuova destinazione? Ovviamente, siamo nel campo delle supposizioni e non si può che procedere per mezzo di scenari che, come evidenziato, manifestano un range completo di risultati, ora favorevoli ora sfavorevoli alla transizione energetica.

Personalmente riteniamo che la crisi ucraina in ultimo favorirà lo spostamento verso le fonti green, nel medio e nel lungo periodo. La crisi, come evidenziato, introduce nella transizione un elemento di urgenza mancante fino ad oggi – per la natura stessa della questione climatica – non solo spingendo i policy maker ad agire con maggiore sollecitudine, ma dando ad essi giustificazioni tangibili e visibili per un’azione rapida e immediata. In ultimo, essa rafforza e dà coerenza ai tre vertici del noto triangolo europeo – sicurezza, sostenibilità, competitività – che ora, come per incanto, muovono tutti nella stessa direzione: la penetrazione delle fonti low carbon. In particolare, il vertice sicurezza, fino ad oggi piuttosto retorico, si illumina e prepotentemente dà enfasi agli altri due. In definitiva, l’aggressione all’Ucraina pone la questione della transizione su un nuovo piano, dando ad essa maggiori chance di realizzazione ma, allo stesso tempo, anche più estese responsabilità. È chiaro che se il processo di decarbonizzazione europeo non ne risultasse accelerato, se il “Fit for 55” fallisse, allora si avrebbe la prova che le interpretazioni scettiche della transizione energetica à la Smil hanno un contenuto di verità elevato e che la mera definizione di una road map non è sufficiente a farlo diventare realtà. Un simile scenario implicherebbe il fallimento del sogno europeo del “man on the moon moment” che rimarrebbe, appunto, un sogno. Ne deriverebbe un’ombra sull’intera transizione energetica mondiale che ne risulterebbe depotenziata nella sua variabile più critica, l’orizzonte temporale. Al contrario, qualora emergesse come vincente lo scenario opposto, l’Europa mostrerebbe al mondo intero che spostarsi dai combustili fossili in una manciata di anni è tecnicamente ed economicamente possibile: l’intera transizione energetica mondiale ne risulterebbe accelerata e l’ombra scura del tramonto calerebbe irreversibilmente sul paradigma fossile. Dunque, siamo di fronte non solo a un test sulla transizione ma a un fenomeno la cui rilevanza ha scala planetaria.

È presto per fare ipotesi sull’efficacia delle nuove policy europee. Tuttavia, la prima impressione è che la reazione dell’Europa alla crisi sia piuttosto bilanciata nel lungo periodo - alternando misure di sostituzione di gas con gas con altre di espansione delle rinnovabili - mentre nel breve favorisca nettamente la sostituzione del gas russo con gas di altra provenienza (vedi tabella). In sintesi, l’Unione Europea oggi importa 155 mld m3 di gas russo, pari al 45% del totale importato. Il pacchetto “Fit for 55” già prevede una riduzione del consumo di gas naturale del 30%, pari a 100 Mld m3 entro il 2030. Pertanto, occorrerebbe tagliare altri 55 mld m3. Il recente pacchetto Repower EU, teso principalmente ad accrescere la sicurezza energetica europea svincolandosi dal gas russo, prevede la sostituzione di 50 mld m3 di gas russo via GNL e altri 10 via gasdotto già dal 2022. Il piano ipotizza, come addizionali rispetto al “Fit for 55”, 18 miliardi di biometano e 25-50 mld di idrogeno verde. Infine, un’ulteriore riduzione dei consumi di gas pari a 10 mld dovrebbe provenire da azioni di efficienza energetica (es. riduzione di 1°C di temperatura nel residenziale).

Piano RePowerEU: azioni di sostituzione del gas russo

Fonte: elaborazione dell’autore su dati EU

Dunque, siamo di fronte a un taglio potenziale dei consumi di gas russo entro il 2030 compreso tra 113 e 138 miliardi di metri cubi, aggiuntivi rispetto ai 100 già previsti dal “Fit for 55”, ovvero più dell’attuale consumo (155 Mld)! Il documento dell’Unione Europea sottolinea come si tratti di stime, e non vi è dubbio che sia così, perché è tanto facile progettare il mondo sulla carta quanto difficile dominarlo nella realtà. Oggi, il mercato è dotato di una forza più grande della spinta di qualsiasi policy maker, come dimostra il paradossale incremento del consumo di carbone dell’elettrico statunitense sotto la verde presidenza Biden: è il primo incremento dal 2013, laddove sotto la presidenza Trump, favorevole al coal, i consumi erano scesi del 36%! In parole povere, alle volte l’economia obbedisce ai desideri dei policy maker quanto il cavallo imbizzarrito al richiamo del fantino. Ciò va tenuto presente nella questione dell’impatto della crisi ucraina sulla decarbonizzazione. Affrancarsi dal gas russo non sarà affatto facile per l’Europa. E tuttavia riteniamo che, nel complesso, lo scenario sia favorevole alle fonti green. La crisi ucraina ha fuso il materiale del cambiamento climatico e quello della sicurezza energetica in un’unica, nuova lega che agisce oggi come un piano inclinato sul quale le rinnovabili possono scivolare veloci come non mai. La geopolitica ha teso una mano alla transizione: saprà essa sfruttarla fino in fondo?

 

Nota: Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non vanno ascritte all’azienda nella quale egli lavora.