La crisi russo-ucraina ha giustamente fatto emergere il grave problema della nostra dipendenza energetica ed in particolare dalla Russia. Mentre stenta ad avviarsi una riflessione di fondo sul problema energetico nazionale, sembra essere diventata quasi ossessiva la ricerca di canali di approvvigionamento di gas alternativi nel più breve tempo possibile. Quello che si legge sulla stampa appare, tuttavia, come un assemblaggio di idee raccogliticce prive di analisi di fattibilità reale, in linea con quella tradizione nazionale che ha sempre caratterizzate le scelte di politica energetica.
Vengono date per quasi fatte soluzioni improbabili e talmente costose da essere non sostenibili per il sistema paese. Come sempre fatto in passato, abbiamo preso tante decisioni semplificando irresponsabilmente la complessità della realtà, convincendoci che alla fine la buona sorte ci avrebbe sorriso. È la storia che ci ha portato ad abbandonare il nucleare ed il carbone convinti che in fondo avremmo prodotto elettricità a più basso costo facendo altro. Abbiamo bloccato la produzione di 21 miliardi di metri cubi/anno di gas nazionale e lo sviluppo del petrolio in Val d’Agri. Abbiamo costretto tutte le compagnie estere a disinvestire e lasciare il paese. Abbiamo impedito anche lo sviluppo della geotermia con le nuove tecnologie a zero emissioni e fermato ogni ampliamento dell’energia idroelettrica, ovvero le due uniche energie rinnovabili a produzione continua e “programmabili”.
Non ci piace guardare indietro per prendere atto che non possiamo sempre contare sulla buona sorte. Rimuoviamo costantemente il passato. “Lesson learning” per noi è privo di significato. Tutti ci stiamo affannando sul tema della riduzione della eccessiva dipendenza dalla Russia, in modo particolare dal gas russo, che è pari a circa 30 miliardi di mc/anno. Nessuno vuole ricordare come siamo arrivati a questi livelli di dipendenza. Eppure, si tratta di fatti noti che appartengono alla storia vissuta degli ultimi due decenni. Dalla sera al mattino, un CEO dell’Eni (che aveva espresso resistenza a firmare certi accordi con la Russia) fu rimosso e fu sostituito da un altro, che invece firmò.
Da quel giorno – sarà molto probabilmente una pura coincidenza – il gas importato dalla Russia è aumentato e la produzione nazionale ha cominciato a diminuire vistosamente.
Esaminare questa storia ci aiuterebbe forse a capire che la vera soluzione strategica per diminuire la nostra dipendenza energetica dovrebbe partire esattamente dalla ripresa della valorizzazione delle risorse naturali e del patrimonio impiantistico e tecnologico di cui disponiamo sia per il gas che per il petrolio. Se la crisi ucraina dovesse mostrarsi più profonda e strutturale di quanto è apparso finora, dovremmo decisamente intraprendere questo percorso.
Preoccupa vedere che, al contrario, ci si concentra nella ricerca di alternative leggere e fragili che spesso appaiono funzionali alla comunicazione più a trovare soluzioni stabili per l’approvvigionamento energetico sostenibile del paese.
Sulla stampa c’è stato un fiorire di ipotesi di approvvigionamento alternative al gas russo che appare utile commentare.
Anzitutto, c’è da chiedersi se la natura dei contratti “take or pay” con la Russia consentono una loro interruzione, decisa unilateralmente dalle nostre aziende importatrici. Non so se possiamo permetterci di continuare a pagare il gas russo “insieme” al gas alternativo. Il peso sulle bollette e sulle imprese diventerebbe tragico.
La proposta che passa per la maggiore sulla stampa è il ricorso al gas liquefatto (GNL).
Ovviamente, si dimentica di dare alcune informazioni basilari.
Il GNL deriva dall’applicazione di una tecnologia per il trasporto del gas basata sulla costruzione di due impianti entrambi costosi (miliardi di dollari), uno per portare il gas allo stato liquido abbassandone la temperatura a -162 °C. Il gas ridotto allo stato liquido riduce fortemente il suo volume e può essere trasportato su navi gasiere specializzate e capaci di mantenere la temperatura al di sotto di -162°C.
Alla destinazione finale il gas deve essere riportato allo stato gassoso riscaldandolo gradualmente in condizioni di sicurezza. Questo processo avviene in un impianto chiamato rigassificatore. Inutile dire che in Italia la costruzione di questi impianti è stata ostacolata in modo feroce dai movimenti ambientalisti, che li hanno descritti come delle bombe in costante procinto di esplosione.
In tutto il ciclo di liquefazione, trasporto e ri-gassificazione, circa il 30% del gas evapora nell’atmosfera, aumentando l’inquinamento globale ed il costo finale del gas venduto al consumatore. Su 100 mc di gas prodotti dai giacimenti all’origine, solo 70 mc arrivano sul mercato finale.
La ragione perché il gas americano non ha mai conquistato il mercato europeo deriva da questi due fattori: il costo elevato (almeno 3 volte di quello che ci arriva con i gasdotti) e la resistenza sociale alla costruzione dei ri-gassificatori.
Oggi sembra che questo gas ci venga offerto da Biden come un dono gratuito. Dobbiamo avere la consapevolezza che questo gas ci verrebbe venduto non dal governo americano ma da compagnie private che lo commerciano alle condizioni del mercato internazionale. Non si tratta di gas prodotto in eccesso che non ha ancora un mercato finale. La gran parte di questo gas americano è venduto a prezzi elevati nei mercati del Far East, dove non sono disponibili produzioni locali di gas e dove la necessità di abbattere le emissioni dovute a carbone ed olio combustibile è quasi drammatica.
Avere questo gas in Italia vuol dire essere disponibile a competere con i compratori asiatici ed a battere i loro prezzi. Avremmo certamente una fonte di gas alternativo a quello russo, ma non avremmo risolto il problema delle bollette del gas e dell’’elettricità e quindi della competitività del sistema industriale italiano.
Un’altra idea che si è vista sulla stampa appare ancora più ingegnosa. La seconda maggior fonte di approvvigionamento è quella del gas algerino che arriva attraverso la storica pipeline che attraversa il canale di Sicilia e poi lo Stretto di Messina. Fu un capolavoro dell’ingegneria italiana guidata dall’Eni negli anni ’70.
Si è cercato di aumentare il volume di gas dall’Algeria, ma sembra che la disponibilità odierna sia limitata. Il gasdotto esistente non viene nemmeno utilizzato nella sua intera capacità. L’Algeria dovrebbe investire nello sviluppo dei campi più strategici per poter aumentare la sua offerta futura. Oggi non dispone delle risorse finanziarie per farlo.
Si è pensato allora ad un accordo triangolare. La Spagna dovrebbe rinunciare ad una quota del gas che importa dall’Algeria, in modo che questo gas possa essere dirottato sul gasdotto che va verso l’Italia. In cambio, l’Italia acquisterebbe un equivalente volume del più costoso LNG dal Qatar e lo darebbe alla Spagna (che dispone di ri-gassificatori). Questi maggior costi sarebbero sostenuti dallo Stato italiano ovvero dai consumatori italiani.
Di nuovo, avremmo meno gas dalla Russia (forse continuandolo a pagare), ma non risolveremmo il problema delle bollette e della competitività delle imprese.
Anche il raddoppio del TAP, tecnicamente fattibile, è stato venduto dalla stampa come quasi già fatto, dimenticando che un progetto simile necessita dell’accordo unanime fra ben 6 partners internazionali e della SOCAR, la società statale dell’Azerbaijan, che, nella fase attuale potrebbe non essere disponibile a creare un dissapore con la Russia.
Evito di fare riferimento ad altre fantastiche proposte sulle possibilità di portare in Italia il gas africano. Nei paesi in cui il GNL è già esistente, viene commercializzato da joint ventures internazionali attraverso processi di tender internazionali, che rendono quasi impossibile garantire la certezza degli acquisti da parte italiana.
La stampa ha citato paesi africani, dove non esistono ancora nemmeno riserve certificate di gas naturale. Dovremmo coinvolgere il paese in investimenti pesanti, senza aver fatto la normale due diligence sull’ammontare delle riserve accertate e certificate e sui costi dell’operazione. A parte i rischi dell’operazione, i tempi per la messa a disposizione del gas resterebbero assolutamente incerti.
Appare davvero preoccupante la forte resistenza ad investire in Adriatico ed in Sicilia, dove si ha la certezza della disponibilità del gas e della ricaduta positiva degli investimenti sul sistema paese, accompagnata dalla disponibilità a prendere in considerazione investimenti poco affidabili in paesi africani, da cui altri paesi europei prendono le distanze.
Nel caso di un aggravamento della crisi e di una carenza nel breve periodo di approvvigionamento del gas, si è parlato di riattivare le centrali a carbone già esistenti. Si potrebbe anche far funzionare le centrali duel-fuel ad olio combustibile anziché a gas. Avendo tuttavia la consapevolezza che la crisi della raffinazione italiana non ci consentirà di disporre di questo prodotto. Dovremo ricorre alle importazioni di combustibile, probabilmente dalla solita Russia.
Ma forse la visione dei nostri governanti è che la crisi sarà breve e presto si tornerà alla routine del passato e potremo archiviare le angosce energetiche come abbiamo sempre fatto.