La Giornata mondiale dell’acqua è, come ogni anno, un’occasione per fare il punto della situazione. E per una volta, si può forse sfatare qualche mito e sfuggire al disfattismo cui, negli anni, ci siamo abituati quasi come a una litania.
Piano piano, zitto zitto, il settore idrico italiano sembra infatti essere uscito ad avviare un percorso virtuoso di miglioramento. Non ingannino i segnali ancora parziali e, in apparenza, timidi: quello idrico è un settore la cui performance si deve valutare nel lungo periodo, la sua inerzia è elevatissima, per via della sua caratteristica tecnica, fatta di reti corpose con cicli di vita molto lunghi. L’importante è che si sia messo in moto, e che lo abbia fatto in modo stabile. E ciò è frutto di quella che, con Donato Berardi e Samir Traini, abbiamo voluto chiamare “la rivoluzione silenziosa delle regole”.
Le aziende, infatti, più o meno, sono sempre le stesse. Il referendum 2011 per 12 anni ha messo nel congelatore ogni tentativo di immaginare modelli gestionali che non fossero la società pubblica in-house. E se a qualcuno non andavano bene nemmeno quelle (ci si ricorderà, anche su queste colonne, di chi ha tuonato contro le SpA “ontologicamente orientate al profitto” e quindi inadatte ad occuparsi di beni comuni, magnificando soluzioni come quella napoletana). Il tempo, il Covid, il tramonto poco glorioso dell’astro populista hanno fortunatamente steso un velo pietoso su quelle discussioni. Nel bene e nel male, le SpA pubbliche e le multiutility quotate sono rimaste l’ossatura portante del sistema.
Quello cui si è assistito semmai è un progressivo consolidarsi del sistema. Il graduale assorbimento delle gestioni in economia e delle aziende più piccole. Qualche caso di fusione tra società pubbliche, soprattutto nel Nord Est. Uno o due rinnovi di affidamento a seguito di una gara – le multiutility quotate non potrebbero più avere affidamenti diretti, e i loro affidamenti originari spesso sono vicini a scadenza. Qualche progetto per ora solo in cantiere, come la grande multiutility toscana, che dovrebbe sorgere al termine degli affidamenti alle attuali SpA miste, primi esperimenti di “industria dell’acqua” in salsa italiana.
Anche la gestione per ambiti ottimali, un po’ alla volta, si consolida, pur senza casi eclatanti, e pur se gli anelli deboli del sistema – Calabria, Sicilia, Campania su tutti – rimangono per lo più ancora tali.
Quello che invece è cambiato, senza darlo troppo a vedere, è il sistema di regolazione. E non si può quindi non spendere una parola di elogio nei confronti di chi, di questo cambiamento, è stato il principale artefice. Di ARERA si possono rimarcare tanti difetti, si possono criticare molti approcci e molte misure specifiche. Non si può tuttavia disconoscere un fatto: la regolazione indipendente è il principale fattore che spiega il lento ma costante miglioramento del nostro sistema idrico, che poco per volta sembra avviato a riportare l’Italia – l’Italia degli acquedotti colabrodo, l’Italia delle infrazioni comunitarie, l’Italia dove pochi bevono l’acqua di rubinetto perché non si fidano, l’Italia dei fiumi avvelenati – a riportarla, dicevo, in un luogo dell’immaginario meno catastrofico.
Fino al 2011, il settore idrico italiano era considerato uno dei posti meno sicuri in cui investire. E non parlo degli hedge fund, della finanza speculativa, dei trader d’assalto. Parlo dei fondi pensione, degli investitori istituzionali, di chi cerca un’alternativa al materasso. Che cercano rendimenti bassi, ma senza sorprese.
L’incertezza regnava sovrana. Solo le grandi multiutility attiravano investitori, essenzialmente perché l’acqua era un settore collaterale, che si reggeva grazie alla maggiore solidità degli altri business, in specie quelli energetici. ARERA ha interpretato il suo mandato, quello di proteggere i consumatori garantendo tuttavia l’equilibrio finanziario agli operatori efficienti. Lo ha fatto, inizialmente, puntando al raggiungimento di una copertura finanziaria, poco discostandosi da modelli “cost-plus”, ma già iniziando a prefigurare, un periodo regolatorio dopo l’altro, una progressiva stabilizzazione almeno dei costi operativi, e poi, con l’ultimo periodo regolatorio ormai prossimo alla conclusione, con un primo assaggio di meccanismi di efficientamento e di regolazione output-based.
E, come per incanto, gli investitori sono tornati a guardare all’acqua italiana – come del resto hanno sempre guardato a quella francese, inglese, olandese. L’industria idrica è dovunque, almeno nei paesi sviluppati, il prototipo dell’investimento a basso rischio e basso rendimento. Occorre però la credibilità delle regole e della loro stabilità. Se ti presto i miei soldi per 50 anni, devo essere ragionevolmente sicuro che, per tutto questo periodo, non si cadrà nella tentazione populista di tenere basse le tariffe, impedendo ai gestori di ripagare i debiti. Se qualcuno mi dà questa garanzia, l’operazione è vantaggiosa per tutti. Sia perché il quadro delle regole ora è chiaro e sufficientemente rassicurante, sia perché nel frattempo tutti sono a caccia di portafogli di investimento “verdi”, l’acqua ha visto di colpo riaprirsi i cordoni della borsa.
Il dato che più spesso si citava per stigmatizzare lo stato pietoso del sistema idrico nazionale era quello degli investimenti: precipitati a 10 €/anno pro capite negli anni 90, risalito con fatica a valori intorno ai 30 ancora 12 anni fa, e oggi prossimo a superare i 50, con una crescita lenta ma costante. Questi valori medi, oltre tutto, come al solito nell’Italia di Trilussa, nascondono molte realtà che già oggi non sono così lontane dai valori medi dei paesi avanzati, attestati sui 100. Ma non è solo quanto si investe a importare. Prima si investiva, essenzialmente, per correre dietro alle rotture, per tamponare le crisi, per arginare il collasso mettendo qualche toppa dove si poteva. Quindi anche l’efficacia dell’investimento era quella che era. Oggi, con fatica, stiamo giungendo a un approccio programmato, figlio di una mappatura delle criticità, di un’individuazione dei percorsi di miglioramento, di una strategia ispirata ai “Water Safety Plan”. La regolazione della qualità costringe i gestori a misurare le loro performance e ad avviare un percorso di miglioramento continuo.
I problemi ci sono ancora intendiamoci. Le perdite sono ancora elevatissime, ma cominciano a scendere, in qualche caso in modo significativo. Le infrazioni comunitarie per il mancato rispetto delle norme sulla depurazione sono ancora numerose – quasi 1000 agglomerati per una popolazione potenziale di 27 milioni di abitanti, per lo più concentrate al sud – ma si vanno riducendo sia di numero che di intensità. La continuità del servizio è cosa abbastanza acquisita nel centro-nord. Emergenze come quella legata alla contaminazione da PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) sono state affrontate e risolte con prontezza. Come sempre, il bicchiere si può vedere mezzo pieno o mezzo vuoto. Se questo articolo vuole offrire, per una volta, la prima prospettiva, non va certo preso come un invito a sedersi sugli allori: semmai a constatare che la strada intrapresa sembra finalmente dare i suoi frutti, e che lungo questo percorso è necessario insistere, spianando semmai la strada contro gli ostacoli che ancora permangono – non ultimo un certo atteggiamento culturale ancora ostile all’idea che acqua faccia rima con industria, finanza e mercato – e ciò a prescindere dalla natura proprietaria e societaria degli enti cui è affidata la gestione.
Mentre ancora le nostre reti vantano il record della vetustà e sollecitano un piano straordinario di rinnovo; mentre i nostri depuratori ancora sono da completare, nuove grandi sfide si affacciano all’orizzonte – dall’impatto dei cambiamenti climatici sul sistema di approvvigionamento alla gestione idraulica del suolo urbano, alla lotta contro inquinanti sempre più subdoli e pervasivi. Aggiungiamo la situazione contingente, determinata dalla crisi energetica, che ha visto crescere a dismisura i costi di un settore per sua natura energivoro – in Italia meno che altrove, grazie alla montuosità del territorio, ma pur sempre una voce che pesa in modo significativo sulla bolletta – e che potrebbero ripercuotersi sugli investimenti se la priorità sarà quella di limitare gli incrementi delle tariffe.
Ma più ancora che queste sfide, l’acqua italiana deve temere il suo nemico interno. La tentazione, eterna, di riaprire il cantiere delle Grandi Riforme. Se il pericolo della “riforma Daga” sembra scongiurato, altre nubi si profilano all’orizzonte, come il paventato intervento legislativo che vorrebbe limitare drasticamente il ricorso all’affidamento in-house. In astratto, una norma che ha anche alcune buone ragioni, soprattutto per smuovere le Regioni del Sud dal loro torpore. Ma rischia di accanirsi sulle gestioni virtuose, appesantendole di ogni sorta di oneri, condannandole a un’esistenza precaria e sempre con la spada di Damocle del ritiro dell’affidamento: proprio il contrario di quel che serve per assicurare la stabilità necessaria e le prospettive di lunga durata. Sarebbe un peccato se, una volta messo in moto, il sistema dovesse per l’ennesima volta frenare per una falsa partenza.