L'obiettivo principale delle ricerche sulla fusione nucleare a confinamento magnetico nel mondo è di produrre energia elettrica (kWh) a partire dalla reazione esotermica fra i nuclei di due isotopi dell’idrogeno (deuterio D e trizio T). Tale reazione produce un neutrone (n) e un nucleo di elio (particella a)
mimando analoghi processi che avvengono naturalmente nelle stelle. Dei due prodotti di reazione, l’n serve in ultima analisi alla produzione della potenza elettrica, mentre l’a a mantenere intrinsecamente calda la miscela DT, e questo idealmente senza immissione di potenza dall’esterno (concetto di ignizione).
Rispetto alle reazioni di fissione nucleare, su cui si basano gli oltre 440 reattori che corrispondono a una potenza elettrica installata oggi nel mondo di quasi 400 GW, la reazione di fusione condivide con quella di fissione i due vantaggi principali, cioè non produce CO2 e non è intermittente, ma è molto più difficile da fare avvenire poiché coinvolge due nuclei, cioè due cariche elettriche dello stesso segno, il cui avvicinamento è ostacolato dalla repulsione coulombiana. La miscela DT va quindi riscaldata a oltre 100 milioni di gradi, passando così dallo stato di gas a quello di plasma, in modo che gli ioni abbiano un’energia sufficiente a superare la barriera elettrostatica. Mentre nelle stelle è la forza gravitazionale a mantenere insieme la miscela, nonostante la sua fortissima tendenza all’espansione, nel caso degli esperimenti sulla fusione nucleare a confinamento magnetico vengono utilizzati allo scopo potenti magneti superconduttori, che a pochi metri di distanza dal plasma vanno mantenuti a pochi gradi K di temperatura, in grado di generare campi magnetici anche un milione di volte più intensi del campo magnetico terrestre.
Queste difficoltà aiutano a capire come mai non sia stato ancora prodotto un kWh da fusione, nonostante una vasta comunità mondiale sia impegnata da diversi decenni su questo fronte. In compenso, la fusione nucleare presenta, rispetto alla fissione, numerosi vantaggi e potenzialità, dal punto di vista della disponibilità di combustibile e della sicurezza, nonché - più in generale - della sostenibilità ambientale.
Per quanto riguarda il combustibile, il D puo’ venire facilmente estratto dall’acqua del mare e degli oceani, mentre il T puo’ venire prodotto in situ, nello stesso componente (detto blanket) dove l’energia cinetica dei neutroni viene convertita in potenza termica, attraverso reazioni nucleari fra gli stessi neutroni e il Li: dato che la disponibilità di acqua nei mari e negli oceani è sostanzialmente inesauribile, e quella di Li nella crosta terrestre è significativa e ragionevolmente ben distribuita (oltre che stimolata dalle esigenze dell’industria delle batterie elettriche), si può ritenere che la disponibilità di combustibile sia un non problema per la fonte energetica fusione nucleare.
Per quanto riguarda la sicurezza, a differenza dei reattori a fissione, un reattore a fusione non si basa sul concetto di reazione a catena (e su quello collegato di criticità), poiché nella reazione DT non vi sono particelle che siano al tempo stesso reagenti e prodotti di reazione; lo sono invece i neutroni che si formano in una reazione a fissione e che servono a propagarla come gli anelli di una catena. Questo implica che, a differenza di quello che può accadere (ed è purtroppo accaduto in passato) in un reattore a fissione, la potenza prodotta in uno a fusione non può divergere, e il reattore non può quindi fondere o esplodere, con severi danni dal punto di vista ambientale. Al massimo, tutto quello che puo’ succedere se si perde il controllo del reattore è che la reazione si spenga (di nuovo, proprio perché è così difficile mantenerla accesa …).
In aggiunta agli elementi succitati, che contribuiscono ovviamente a garantire la sostenibilità ambientale della fonte fusione nucleare, va osservato che, di nuovo a differenza della fissione, la reazione di fusione non genera prodotti di reazione che rimangono radioattivi anche per centinaia di migliaia di anni. Il problema delle scorie in un reattore a fusione è quindi drasticamente ridotto, per quanto a rigore non completamente azzerato, poiché gli n, oltre a tante cose utili che fanno, possono anche attivare (cioè rendere radioattivi) i materiali strutturali (originariamente innocui) presenti nel blanket. È stato però dimostrato che saranno sufficienti circa 100 anni dallo spegnimento di un ipotetico reattore a fusione, dopo 40 anni di funzionamento, perché la radioattività residua nell’impianto scenda sotto a quella naturale; si capisce quindi come il problema delle scorie sia molto meno preoccupante che nel caso degli impianti a fissione attuali. Su questo aspetto, merita infine ricordare che il T è radioattivo (emettitore b con un tempo di dimezzamento di circa 12 anni) e quindi la gestione dell’impianto richiede di tenere attentamente conto di questo fatto.
Tenuto conto di tutte le enormi potenzialità citate, cosa si sta facendo al momento nel mondo, e cosa resta ancora da fare, per rendere realtà la meravigliosa opportunità di fonte praticamente inesauribile, CO2-free e (quasi) pulita offerta dalla fusione nucleare alle prossime generazioni? La principale impresa sulla fusione nucleare nella quale è coinvolto praticamente tutto il mondo è ITER, un reattore di tipo tokamak in costruzione a Cadarache, in Provenza, che dovrebbe cominciare a funzionare entro la fine del decennio e realizzare la prima reazione DT entro il 2035. ITER mira a produrre 500 MW di potenza termica, ma non produrrà elettricità. Nella roadmap europea, questo compito è lasciato a un secondo reattore, sempre di tipo tokamak, detto EU DEMO, che si spera sia in grado di raggiungere il suo obiettivo negli anni ‘50 di questo secolo. Una delle difficoltà principali nel passo da ITER a DEMO sarà la gestione dei carichi termici, diverse decine di MW/m2, sui componenti affacciati al plasma; tuttavia, un altro Tokamak, detto DTT, interamente dedicato alla soluzione di questo problema, è attualmente in costruzione a Frascati, come risultato della collaborazione fra ENEA, ENI e un gruppo di Università ed Enti di ricerca che include anche il Politecnico di Torino. Mentre tutte le iniziative citate finora sono di natura pubblica e vedono il nostro paese fortemente coinvolto e in prima linea, sia dal punto di vista delle istituzioni di ricerca, sia delle industrie, negli ultimi anni sono state lanciate anche iniziative private che mirano a contribuire al raggiungimento degli obiettivi della fusione nucleare sfruttando tecnologie, quali in particolare i materiali superconduttori ad alta temperatura critica, e approcci alternativi.
La fusione nucleare costituisce una grande opportunità per garantire un futuro sostenibile alle generazioni che verranno e, come tale, la nostra capacità di coinvolgere nell’impresa giovani bravi e motivati sarà cruciale per il suo successo. La sfida è affascinante in quanto multidisciplinare e potenzialmente di grande impatto sociale. I giovani europei, e in particolare i giovani italiani, si trovano oggi nel posto giusto al momento giusto.