Da tempo si condivide l’idea che le nuove scoperte di giacimenti nel Mediterraneo Orientale debbano riformulare il profilo geopolitico dell’area. I giacimenti di gas naturale al largo di Egitto, Striscia di Gaza e Israele potrebbero costituire un'opportunità unica per stabilire un clima di cooperazione energetica nella zona. In questo senso l’istituzione dell'EastMed Gas Forum nel gennaio 2019 era stato accolto come segno tangibile della volontà delle diplomazie mediorientali di superare antiche ostilità. Ancora a gennaio di quest’anno, Yuval Steinitz, ministro dell’energia israeliano, sottolineava l’importanza di costituire accordi regionali volti a favorire lo sviluppo di una rete regionale di gasdotti.
Eppure, il recente riacuirsi delle tensioni tra Israele e Palestina può distruggere qualsiasi sviluppo di un hub regionale del gas.
A pochi giorni dall’inizio delle operazioni belliche, il giacimento di Tamar – gestito da Chevron ma con una partecipazione del 22% della israeliana Delek Drilling – è stato, infatti, chiuso per ordine del Ministero dell’Energia Israeliano. La piattaforma si trova a circa 25 chilometri dalla città di Ashdod, lungo il litorale meridionale del Mediterraneo di Israele. Le Brigate Izz ad Din, ala armata di Hamas, hanno dichiarato di voler attaccare questa installazione offshore, nonostante la distanza dalla costa renda il sito irraggiungibile ai razzi. Pertanto, le estrazioni si sono interrotte per circa una settimana. L’intelligence israeliana ha da tempo individuato la potenziale minaccia di nuovi organi di Hamas specificamente addestrati alla guerriglia sottomarina e al sabotaggio delle piattaforme offshore.
Il giacimento di Tamar rappresenta un nodo fondamentale del sistema energetico israeliano. Nel 2020, la piattaforma ha prodotto un totale di 8,2 miliardi di metri cubi di gas, di cui 7,7 hanno coperto la richiesta israeliana, 0,3 sono stati esportati al vicino Egitto e 0,2 alla Giordania. Nondimeno l’approvvigionamento energetico di Israele non ha subito interruzioni in quanto la corporation statunitense ha, comunque, continuato le operazioni di prelievo dal giacimento Leviathan, la cui piattaforma di produzione è posizionata più a nord della Striscia di Gaza.
Un primo fronte diplomatico sensibile agli ultimi eventi, potrebbe essere quello delle relazioni, normalizzate da poco più di un anno, tra Israele e l’Arabia Saudita: alla fine di aprile di quest’anno, infatti, la società Delek Drilling ha siglato un accordo, per quanto non vincolante, per cedere la sua partecipazione nel giacimento di Tamar alla Saudita Mubadala Petroleum. Questo accordo, oltre che per l’intrinseco valore finanziario - 1 miliardo di dollari - è di vitale importanza per realizzare un nuovo allineamento strategico in Medio Oriente. L'accordo doveva essere finalizzato in questi giorni con l’appoggio del governo di Israele e aprire la strada a un'ulteriore cooperazione tra Mubadala e Delek Drilling nel vicino giacimento Leviathan.
Ad oggi, queste sono state le uniche conseguenze che l’inasprirsi del conflitto Israelo-Palestinese ha avuto nel settore energetico locale. La recente politica energetica dello stato sionista, che ha spesso coinciso con necessità geopolitiche, non pare abbia ancora subito gli effetti di queste ultime tensioni. A tal proposito, Israele ha da tempo riformulato la sua politica estera in funzione delle ultime scoperte dei giacimenti di gas naturale stringendo solide relazioni commerciali con alcuni degli storici nemici. In questo senso, l'accordo di esportazione di gas naturale, sancito nel 2018 con l'Egitto, rappresenta indubbiamente il più importante successo diplomatico da quando i due Paesi hanno firmato il trattato di pace nel 1979. Nel gennaio 2020, Israele ha iniziato ad esportare gas naturale in Giordania ed Egitto dal giacimento Leviathan. L’opinione pubblica di entrambi i paesi arabi aveva manifestato dissenso; eppure, la diplomazia del gas non ha subito battute d’arresto e Israele è diventata a tutti gli effetti un esportatore netto di energia.
Nel febbraio di quest’anno, il ministro egiziano dell'Energia Tarek al-Molla-si è recato in Israele, prima visita ufficiale di un alto funzionario egiziano dal 2016. Molla, oltre agli incontri istituzionali con il suo omologo israeliano, ha colto l’occasione per visitare la piattaforma del giacimento di Leviathan, riconoscendo la palese importanza che questa ricopre per i futuri piani della politica energetica egiziana. Nel corso dello stesso viaggio, il ministro ha fatto tappa in Cisgiordania, dove ha firmato un memorandum d'intesa con i funzionari palestinesi per sottoscrivere l’impegno dell’Egitto a sviluppare il giacimento di Gaza Marine e le infrastrutture necessarie. Da un punto di vista puramente tecnico, il giacimento di gas di Gaza Marine, con un potenziale di 32 miliardi di metri cubi, scoperto già due decenni fa dalla British Gas, non presenta alcuna sfida, il suo sfruttamento è stato però direttamente ostacolato dalle pessime relazioni Israelo-Palestinesi. Il nuovo progetto prevede, da un lato, la costruzione di un gasdotto offshore tra il giacimento Leviathan e le strutture di liquefazione egiziane, e la realizzazione delle infrastrutture che attraverso Israele trasporteranno il gas a Gaza. Il lato israeliano del gasdotto pianificato dovrebbe essere finanziato da fondi qatariani mentre la sezione palestinese da fondi Europei.
Dal punto di vista politico, il progetto Gas for Gaza sembra meno polarizzante: il gasdotto, con un costo stimato di 100 milioni di dollari, potrebbe trasferire fino a 1 miliardo di metri cubi di gas all’anno dall’israeliano deserto di Negev a Gaza, consentendo la costruzione e il funzionamento di centrali elettriche locali. Ad oggi, infatti, l'unica centrale elettrica di Gaza, a diesel, produce energia per non più di 12 ore al giorno. Questo programma di interventi fornirebbe finalmente da un lato, un approvvigionamento energetico sicuro alla Striscia di Gaza mettendo fine ai continui blackout che hanno contribuito ad asfissiare l'economia dell'enclave palestinese, e dall’altro, assicurerebbe a Israele un nuovo sviluppo del mercato dell’export israeliano del gas naturale. Tuttavia, il riaccendersi delle tensioni tra Palestina e Israele minaccia di invalidare la realizzazione di questi progetti.
L’ultima e più complessa variabile geopolitica da tenere in considerazione è capire la reazione di Ankara alla luce di questa nuova escalation di tensione. Il risorgere di una volontà espansionistica neo-ottomana ha posto la Turchia come nuova madrina internazionale della causa palestinese. Il sultanato di Erdogan ha più volte ribadito la necessità di riformulare i confini delle Zone Economiche Esclusive dell’area del Mediterraneo Orientale. La Turchia ha recentemente proposto all’Autorità Palestinese un accordo sulla giurisdizione marittima, simile a quello stipulato con la Libia nel 2019. Ufficialmente Ankara ambisce ad aiutare il popolo palestinese ad assumere un ruolo di rilievo nelle dispute regionali di confine. È facile, però, intravedere un palese egoismo nazionalistico turco volto esclusivamente ad espandere la propria influenza politica nella regione.