Undici mesi fa Ursula von der Leyen annunciava il Green Deal europeo, un piano di dimensioni epocali per investire nella transizione energetica dell'Unione europea. La settimana scorsa è stata approvata la European Climate Law, che fissa un percorso vincolante affinché l’obiettivo delle zero emissioni nette al 2050 venga rispettato. Ne abbiamo parlato con Patrizia Toia, Vicepresidente della Commissione per l’Industria, la Ricerca e l’Energia al Parlamento europeo.
Possiamo dire che siamo ad una svolta storica? Che effetto fa viverla in prima persona da dentro le istituzioni europee?
Devo confessare che, per chi come me è abituata da anni a lottare duramente al Parlamento Ue anche solo per “strappare” qualche emendamento, vedere oggi la velocità del cambiamento fa una grande impressione. I conservatori, fuori e dentro il PPE, che per anni ci hanno bocciato qualsiasi iniziativa sugli eurobond e su una governance economica più mirata alla crescita, ora appoggiano il Recovery Fund che crea un debito comune e sostiene investimenti collettivi basati sulla solidarietà tra i paesi. Chi per anni non voleva neanche sentire parlare di cambiamento climatico e di limiti stringenti alle emissioni oggi ha accettato l'obiettivo dello zero emissioni al 2050. La Commissione e, soprattutto, il Parlamento europeo, marciano decisi e ambiziosi. Il problema, semmai, è nei Governi che spesso non seguono con altrettanto coraggio le scelte lungimiranti (non a caso spesso il Consiglio ha un ruolo frenante) e non attuano con altrettanta prontezza le direttive. Si veda ad esempio, lo studio, di cui abbiamo discusso in questi giorni in Commissione ITRE, sullo stato di avanzamento dell’obiettivo del 20% di riduzione dell’energia al 2020, che in molti paesi, segna un ritardo molto forte, per fortuna, però, non nel nostro.
In sede di definizione della legge, si è molto discusso sull'opportunità di modificare l'attuale obiettivo di riduzione delle emissioni al 2030 del 40% rispetto al 1990, portandolo a un più ambizioso 55%. Sembra abbia prevalso il coraggio e l'ambizione, ma non crede sarà difficile mantenere un simile impegno di medio periodo?
Nel testo, che abbiamo votato al Parlamento europeo lo scorso 8 ottobre, l'obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 è stato alzato al 60%, ma naturalmente questa è la “prima lettura” del Parlamento ed è la base negoziale per il trilogo in Consiglio. Solo da lì uscirà il target definitivo che certo, però, non sarà meno del 55%. Il voto sul 60% ha scatenato molte obiezioni da parte dei conservatori, ma il provvedimento nel suo complesso è passato comunque con 392 voti a favore, 161 contrari e 142 astenuti. Chi si oppone è preoccupato per le difficoltà dell'industria nel medio periodo. Lo sono anch'io e per questo mi batto da sempre per misure che rendano la transizione una opportunità di crescita per le nostre imprese e di professionalizzazione per i nostri lavoratori. La transizione ambientale può diventare, infatti, l’occasione per un salto di qualità del nostro settore manifatturiero e dei servizi, se sappiamo accompagnare le scelte ambientali con le necessarie politiche industriali di innovazione e di formazione.
Difficile sostenere che sarà una transizione indolore, però.
Non sono mai stata un'ambientalista utopica. Da Vicepresidente della Commissione Industria, Ricerca ed Energia ho ben presente le difficoltà del mondo del business. Però la storia ci ha insegnato che il cambiamento non avviene in maniera lineare. Il mondo non arriverà allo zero emissioni seguendo un percorso costante di riduzione delle emissioni stesse. Nella realtà il cambiamento arriva per crisi, arriva, spesso, attraverso innovazione disruptive, con scossoni improvvisi e profondi cambi di paradigma. Le crisi degli ultimi anni dovrebbero averci insegnato la lezione. Chi si muove per primo si troverà preparato e ne trarrà anche i vantaggi in termini di competitività e crescita economica. Quelli che oggi si oppongono agli obiettivi intermedi sulla riduzione delle emissioni sono gli stessi che in passato si opponevano a regole più severe per le emissioni inquinanti delle auto. Pensavano di aver fatto un favore all'industria dell'auto, quando in verità l’abbiamo danneggiata, perché abbiamo perso anni preziosi, fermandoci solo al diesel e trascurando altre tecnologie più innovative. Oggi un colosso europeo come Volkswagen si trova a dover inseguire gli americani di Tesla. Non sempre quelli che si dicono preoccupati per l'industria sono i migliori alleati dell’industria stessa.
Parliamo di Recovery Fund. Dopo tanti tentennamenti l'Europa ha finalmente risposto "presente", eppure si intravede il rischio che una simile occasione non venga sfruttata appieno dagli Stati membri. Lei sta dalla parte degli entusiasti o da quella dei cauti?
Sono senz’altro tra gli entusiasti per il grande balzo in avanti che il Recovery Fund rappresenta anche in termini di integrazione europea, ma sono tra i cauti per quanto riguarda l'applicazione pratica delle misure. E comunque mi ascrivo tra gli “attivi”, cioè tra coloro che lavorano per arrivare al risultato. Detesto chi si ferma e si limita a elencare i pericoli e le mancanze. Con il Recovery non abbiamo vinto alla lotteria e le risorse non cascheranno dal cielo. Che non fosse una passeggiata lo sapevamo e le attuali difficoltà del negoziato tra Europarlamento e Consiglio ne sono la prova. Va risolta la grande questione del rispetto dello Stato di Diritto, vanno bloccati i colpi di coda dei cosiddetti paesi frugali e va, soprattutto, rilanciato l’entusiasmo politico che ha portato ai risultati di luglio.
C’è chi teme che l’Italia non sia in grado di trasformare queste risorse in investimenti e progetti concreti. Lei cosa ne pensa?
L’architettura di Next Generation EU, di cui il Recovery costituisce quasi l’80%, si basa su tre pilastri, che devono essere conclusi insieme: il Recovery, il Bilancio pluriennale 2021-2027 (MFF) e le “risorse proprie”. Ci sono passaggi in Parlamento UE e anche un passaggio molto spinoso di approvazione da parte dei parlamenti nazionali sulle “own resources”. Contemporaneamente c’è la grande prova degli Stati membri che devono dimostrare di essere in grado di pianificare, di progettare e poi di spendere in modo efficace i fondi. La fase attuativa, la cosiddetta execution, è un punto cruciale perché il Recovery Fund chiede che i fondi siano impegnanti entro il 2023 e spesi entro il 2026. Per l'Italia si tratta di una prova molto dura perché la nostra complessità burocratica è nota e perché le difficoltà che abbiamo avuto in passato con i fondi europei indicano che le nostre amministrazioni spesso non hanno le capacità tecniche e la nostra macchina burocratica non ha l'agilità e la velocità necessaria. Allo stesso tempo siamo il Paese europeo che ha ricevuto la quota più grande di fondi, oltre 205 miliardi complessivi, da investire in pochi anni. Sarebbe una prova difficile per qualunque Paese. Il nostro paese comunque sta lavorando nella giusta direzione per predisporre un piano con una visione e delle scelte conseguenti con una grande attenzione alla fase attuativa.
In questi anni sta emergendo con forza il concetto di Just Transition. Come far sì che la transizione sia inclusiva e tenga conto delle ricadute sociali su certi settori professionali?
Questo è un punto molto delicato che, a volte, rischiamo di sottovalutare per una specie di convinzione fideistica che, siccome il cambiamento è giusto, tutto andrà bene. Io penso invece che, proprio perché il cambiamento è giusto, dobbiamo “accompagnarlo” prevenendo tutti gli inevitabili effetti negativi e realizzando le misure necessarie per prevenire questi effetti e, se si riesce, anche a capovolgerne l’esito. Troppo spesso dimentichiamo che in questo percorso di cambiamento chi paga il prezzo più alto sono le persone economicamente e socialmente più vulnerabili. Sono perciò contenta che la Commissione europea abbia accettato le nostre proposte di accompagnare la riduzione delle emissioni con un Fondo specifico, il Just Transition Fund, che dovrà essere utilizzato per processi di decarbonizzazione e per i lavoratori interessati. Con i Socialisti & Democratici abbiamo dato centralità al tema della povertà energetica come battaglia costante e centrale, quando si parla di efficienza energetica dei prodotti e degli edifici, di economia circolare e di decarbonizzazione, di assetto del mercato dell’energia e in tutte le transizioni che dovremmo affrontare. Vi sono lavori recenti (da ultimo lo studio di Elettricità Futura, Eurelectric, Enel Foundation) che dimostrano che le politiche ambientali devono essere accompagnate da altre politiche complementari per evitare gli effetti regressivi presso alcune fasce sociali e suggeriscono un ventaglio di misure possibili per cambiare questi effetti o per farli invece diventare risultati progressivi, sia sotto il profilo ambientale che per una maggiore equità sociale.